Anno 2022-2023
Negli ultimi anni ho modificato il mio approccio ai rifrattori da 4 pollici svestendoli un poco del loro valore collezionistico e
apprezzandoli maggiormente per la loro capacità di mostrare, sempre e comunque, il cielo come ero solito osservarlo quando ero ragazzo o poco più.
Questa inclinazione mi ha permesso di rivalutare alcuni strumenti che, pur non rappresentando l’eccellenza nella loro classe, si fanno apprezzare per versatilità, leggerezza, facilità e immediatezza
di utilizzo, e anche per un valore commerciale basso che permette un impiego “sbarazzino” privo di patemi. Si veda a questo proposito l’articolo sul Bresser 102/1000 nonché il recente “Rifrattore da 4 o 6
pollici?” nella sezione “Fighting Telescopes”.
I primi della classe, con la stampigliatura TeleVue o Takahashi (per abbracciare i due estremi del Pacifico senza fare torto a nessuno), sono indubbiamente “perfetti” ma, se si escludono le
applicazioni fotografiche e ci si limita all’osservazione visuale, le loro prestazioni non sono così tanto diverse da quelle di alcuni tubi molto più popolari e di produzione moderna, o quantomeno
non lo sono in modo abissale.
Quando le ottiche sono ben lavorate e collimate i vantaggi visuali che un rifrattore da 10 cm. da svariate migliaia di euro di costo offre rispetto ad uno molto più economico sono tutto sommato
limitati.
Mi è più volte capitato di scrivere parole simili che non vanno interpretate come un inno al risparmio forzato e neppure come una condanna (ingiustificata) alla perfezione (che si paga ed è giusto
farlo). Il loro scopo è solamente quello di indicare quanto la visione del cielo sia soprattutto debitrice della passione e della costanza e quanto si possa fare anche con investimenti relativamente
limitati.
Negli anni non sono però riuscito a spegnere l’affezione per i rapporti focali lunghi che, senza eccedere nell’assurdo, sanno offrire vantaggi innegabili quando al telescopio si abbina l’occhio e non
un CCD.
Avere una lunga focale è quasi sempre un vantaggio nella qualità percepita che l’immagine assume all’oculare. Si perdono un poco i così detti “campi larghi” ma si acquista una minore sensibilità alla
turbolenza atmosferica, una maggiore profondità di fuoco, ed è possibile impiegare, a parità di ingrandimenti raggiunti, oculari più semplici e comodi.
Restando nella classe dei 4 pollici, che sono ancora oggi una sorta di spartiacque nell’osservazione visuale tra quella estemporanea e l’applicazione un poco più impegnata e soddisfacente, una focale
lunga aiuta inoltre a contenere l’aberrazione cromatica residua là dove non vengano impiegati vetri esotici.
Oggi, epoca dell’astronomia digitale, si è un poco perso il piacere della pura osservazione non solo per una imperante moda ma anche perché la qualità dei nostri cieli è peggiorata molto in capo a
solo una quindicina di anni.
A farla da padrone non è solo l’inquinamento luminoso ma soprattutto quello atmosferico, fatto di polveri sottili, che ha reso traslucidi gran parte dei cieli di pianura.
Proibitive condizioni osservative hanno ridotto molto la schiera degli appassionati ancora affascinati dalla visione pura e tra loro i più sono oramai dei nostalgici che amano non solo l’osservazione
ma anche e soprattutto gli strumenti che la rendono possibile, trasformandosi in collezionisti o “puristi” del semi-inutile. In questa ottica è facile comprendere come il “lungo rifrattore da 10
cm.”, sogno del secolo scorso, abbia ancora tanto appeal.
Il problema, se si esclude il collezionismo fine a sé stesso, è che questi tubi non sono facili da gestire come i moderni apocromatici a f7 o f8.
Un vecchio Polarex a f15 (solo per citare il più famoso e diffuso e ben meno raro di quanto alcuni vogliano far credere) appare mostruosamente lungo, difficile da bilanciare, e richiede montature ben
diverse da quelle su cui nasceva per offrire prestazioni adeguate. Inoltre, pur con il suo rapporto di apertura estremamente permissivo, esibisce ancora un certo cromatismo e il trattamento
antiriflesso dei suoi doppietti (che risalgono alla tecnologia degli anni ’60) lascia molto a desiderare quanto a trasmissione luminosa e dominante cromatica.
Nella mia esperienza, che può non valere per tutti i lettori, ho avuto migliori prestazioni generali da successivi tubi a focale lievemente più corta, tradizionalmente con rapporto focale di f13, che
hanno visto i natali in epoca più recente e che beneficiano di coating migliori anche se comunque non all’altezza di quanto si riesca a fare oggi.
Purtroppo, nella storia dell’astrofilia amatoriale, i rifrattori da 4 pollici e 1,3 metri di focale prodotti in serie sono molto pochi. Tra questi, i più famosi e forse migliori tra quelli non di
produzione squisitamente artigianale, sono indubbiamente i Carton e Vixen 100-102/1300 (che guarda caso sono, almeno a livello ottico, la stessa cosa).
Quando Vixen propose il proprio PULSAR 102/1300 lo fece usando ottiche prodotte dalla Carton che aveva in listino il modello 100/1300. La differenza di dicitura è sibillina e dipende dalla cella ma
l’ottica è la medesima, così come sono molto simili le dimensioni generali dei due tubi.
Personalmente ho sempre amato maggiormente il prodotto nativo Carton per via delle finiture in azzurro opaco dei focheggiatori, anelli, e montature dedicate che conferivano allo strumento un ché di
esotico che mancava all’offerta Vixen (pur essendo entrambi giapponesi).
Si tratta però di valutazioni meramente estetiche che non hanno nulla che vedere con le prestazioni finali del telescopio, in entrambi i modelli ottime.
La produzione Vixen del tempo proponeva il “suo” 102/1300 su montature come la Saturn (un antidiluviano pezzo di ferraglia pesante come un carro armato e che supportava anche la versione 102/1500) o
come la Sensor (raffinata versione maggiorata della Super Polaris), ma anche su una altazimutale a forcella che mutuava l’idea di base dei piccoli telescopi da 60 millimetri classici con una
struttura però più solida.
Devo ammettere di aver sempre ritenuto un poco anacronistico abbinare un rifrattore di cospicue dimensioni, nato principalmente per l’osservazione ad alto ingrandimento, ad una montatura altazimutale
manuale, ma è altrettanto vero che questa versione del Pulsar 102 incarna il più autentico spirito classico dell’astronomia del secolo scorso.
Una decina di anni fa almeno avevo già posseduto un Vixen 4” f13, poi malauguratamente venduto in preda ad un ricorrente raptus innovativo, e così, quando mi è capitata l’occasione di acquistare un
altro tubo uguale, sono stato colto da forte nostalgia.
Ho tergiversato un poco e infine ho desistito dall’acquisto ma non sono comunque riuscito a sfuggire ad un destino evidentemente segnato. Perché quando qualcosa di raro si cela per anni può capitare
che, tutto un tratto, offra più di una occasione per essere goduto.
A solamente un mese di distanza si è presentata infatti la ghiotta occasione di un Pulsar originale completo di montatura a forcella a cui non ho potuto resistere.
La spedizione navale ha frapposto circa tre mesi tra l’acquisto e la ricezione dello strumento, tempo in cui ho quasi dimenticato il nuovo giocattolo e mi sono assiduamente dedicato ad altro come l’ottimizzazione di un set-up per l’imaging NIR, ma il giorno di incontrare il “nuovo” Pulsar 102 è comunque giunto intorno alla metà di gennaio dell’anno 2023.
Non è per i deboli di cuore aprire ciò che a volte viene dal Giappone, comprato soprattutto basandosi su poche immagini che offrono
impressione di abbandono e miseria. Quello che giunge è infatti solitamente in condizioni notevolmente peggiori di quanto ci si aspetti, a ben monito della scarsa cura che gli ometti del Sol Levante
hanno solitamente per i loro strumenti.
Non tento di impietosire nemmeno me stesso nel descrivere lo stato del povero 102/1300 ma posto tre immagini significative.
Sopra: immagini del tubo ottico prima e dopo l’intervento di pulizia e lucidatura.
Il lavoro di restauro cosmetico è stato intenso ed è durato un paio di giorni di attenzioni e cure senza quasi interruzione.
In compenso, dopo aver lucidato più volte ogni parte e lavato e centrato le ottiche abbinando posizione di crown e flint nel migliore dei modi, il Pulsar 102 è tornato a svettare sulla sua montatura
originale, fiero e profumato.
Il restauro ha restituito brillantezza e un pizzico di superbia al rifrattore giapponese che ha poi atteso una sera di condizioni meteorologiche adatte alla sua “prima” luce in mia compagnia.
Foto sopra e sotto: il Vixen Pulsar 102 F13 sulla sua originale montatura a forcella e in abbinamento ad un corpo reflex dell’epoca, rigorosamente manuale e con “flessibile di scatto”: una CANON FT che è stata introdotta sul mercato nel lontano 1966
Benché affascinante e ammantato da nostalgici ricordi, il set-up sopra ritratto è destinato a rimanere immagine di repertorio. Scattare su
pellicola con il flessibile è sensazione ammaliante ma ciò che segue, ossia lo sviluppo, stampa, e sicura “cestinatura” della metà dei negativi, richiede tempi e dedizione che in questo momento della
vita non dispongo.
La possibilità di vedere in tempo reale i risultati di una ripresa a cui ci siamo abituati con le moderne camere c-mos è uno di quei “lussi” a cui non sono più disposto a rinunciare e così ho scelto
di configurare il Pulsar 102 su una montatura Vixen Sphinx accoppiandolo ad una camera planetaria monocromatica con sensore IMX 290 come la Svbony SV305M pro oppure a colori, come la ASi 385
MC.
Per i primi test avevo però pronta, ossia già montata e allineata al polo celeste in giardino, una affidabile EQ6N-PRO con qualche anno di onorato servizio alle spalle.
Sopra: il Vixen 102/1300 sulla EQ6N-Pro.
In questa novella configurazione ho effettuato lo star test, prima impiegando l’elettronica di acquisizione del sensore Sony, poi con una serie di oculari LV Vixen con focali tra i 4 e i 20 millimetri, spaziando così dai 325 ai 65 ingrandimenti circa.
Sopra: il risultato delle riprese in intra ed extra focale, oltre che a fuoco, esibite attraverso l’oggettivo riscontro di un sensore moderno.
Prima di commentare i risultati, sia “fotografici” che, soprattutto, visuali, ritengo doveroso condividere alcune considerazioni sulla
validità del rapporto focale a f13, mentre lascio ad un approfondimento in calce all’articolo un altro fondamentale aspetto sulla trasmissione luminosa di obiettivi anni ’70 e ’80.
Valutando le immagini ottenute emerge con chiara evidenza la differenza con un pari qualitativo 4 pollici a f10 realizzato con i medesimi vetri crown e flint. Questa differenza è, dal punto di vista
cromatico, poca.
In questo ambito, chiunque millanti significativi incrementi di prestazioni di un F13 confrontato con un F10 dice fesserie. Non che non ci siano miglioramenti, ma questi sono meno esaltanti rispetto
a quanto si creda. Ulteriore minore differenza esiste tra un F13 e un F15, con buona pace dei venditori di “fumo” che fanno dello smercio di materiale vintage una seconda occupazione, ovviamente tax
free...
Per dare una idea di quanto sia veritiera questa affermazione ricordo che si può calcolare l’approssimativa dimensione del cerchio di luce diffusa spuria del disco di Airy con una formula che,
partendo dall’accettazione di una lavorazione ottica “standard” almeno a 1/4 lambda e schema ottico a doppietto acromatico in stile classico “BK7-F2”, offre un valore di circa 4.7 per un rifrattore
100/1000, poco meno di 3,6 per un 100/1300, e 3,1 per un 100/1500.
I dati mettono in evidenza quanta maggiore sia la differenza percentuale tra il f10 e il f13 rispetto a quella che divide f13 e f15.
Per comprendere ulteriormente il valore assoluto di questi dati è forse utile ricordare che, un doppietto in FPL-51 di pari apertura e lunghezza focale genera valori che sono inferiori di oltre il
50% mentre la combinazione con il FPL 53 li riduce dell’80%
Questo fa ben capire quanto siano “ridicole” le leggende generate da alcuni sedicenti guru del “vintage” circa la “apocromaticità” di questi “vecchi e lunghi” rifrattori del secolo scorso.
Il loro vero “asso nella manica”, semmai, è rappresentato dalla profondità di fuoco e maggiore dimensione che assume il disco di Airy.
Questi due aspetti si traducono, mentre si osserva, nel fenomeno noto a molti come “minore sensibilità alla turbolenza atmosferica”. L’immagine è sempre più quieta e per questo motivo i dettagli
percepibili diventano più “facili” e riposanti. Sia chiaro: NON aumentano rispetto a classici f10, divengono semplicemente più immediati e questa facilità osservativa rende la loro lettura meno
faticosa per il nostro cervello.
A questo si somma una maggiore capacità, a parità di lavorazione ottica, nel contenere alcune aberrazioni geometriche tra cui, in primis, quella sferica.
La “magia” di un rapporto focale poco spinto in un rifrattore risiede quindi in ben precise logiche fisiche e non ha nulla a vedere con la sibillina affezione per “il bel mondo antico”. Purtroppo
oggi, per motivi squisitamente commerciali, i rifrattori a lungo fuoco non vengono più prodotti e trovare un 4 pollici acromatico ben costruito con rapporto focale di f13 o f15 è impossibile senza
scomodare produzioni personalizzate o artigianali. Se lo fosse, e se fosse davvero ben realizzato, si mangerebbe a colazione qualsiasi “old vintage refractor”.
Tornando al nostro Vixen 102/1300 (il secondo che posseggo e il “centesimo” rifrattore a lungo fuoco di varia apertura testato, avuto, usato con diletto e poi venduto) mi rendo conto di quanto la sua
logica di compromesso sia “ideale” e nel prosieguo dell’articolo vedremo quanto queste affermazioni vengano confermate dai risultati di test di confronto con altri strumenti tra quelli attualmente in
mio possesso.
Dopo questa lunga digressione, osservando sia le immagini dello star test che traducendo in parole le impressioni osservative, si può dire che il Vixen F13 lavori correttamente e rispecchi in modo
coerente il proprio progetto ottico.
La cromatica longitudinale appare ovviamente più contenuta rispetto ad un analogo 102M e, benché non assente, all’occhio molto meno fastidiosa anche su soggetti “limite” come stelle di primissima
grandezza e il lembo lunare illuminato.
L’immagine a fuoco di una stella mostra una geometria classica ben definita e pulita con il disco di Airy pronunciato e netto e un primo anello di diffrazione abbastanza sottile che quasi non
permette di cogliere la presenza dei tre spaziatori a 120°.
I puristi la definirebbero “stampa da manuale di astronomia” e non avrebbero torto anche se, paragonata, lo risulta molto meno rispetto a quella generata da un 50/700 acromatico Takahashi (ossia un
f14 con diametro utile dimezzato e che raccoglie 1/4 della luce). Il 50mm risulta obiettivamente apocromatico in visuale, focalizza immagini virtualmente “finte”, ma produce anche una risoluzione
massima molto inferiore e quindi immagini meno ricche di dettagli.
Messo a fianco ad un 80/1200 (in questo caso Vixen), il 102/1300 risulta decisamente più luminoso e offre più dettagli su ogni oggetto inquadrato ma esibisce anche maggiore cromatica residua e una
immagine più “vibrante”.
Dotato di cercatore 6x30 millimetri (con ottiche di buona qualità aggiungerei) e della coppia di anelli e barra Vixen di nuova fornitura
con maniglia di trasporto, il Pulsar 102 F13 segna alla bilancia un peso di 7,5 chilogrammi e una lunghezza di
133 cm. A questi dati vanno aggiunti un diagonale da 31,8mm e un oculare che incidono in modo poco significativo sia sul peso complessivo che sulla lunghezza e quindi “leva” del tubo.
I numeri non sono da “peso piuma”, per confronto ricordo che, nelle medesime condizioni, il Vixen 80/1200 pesa
4,1 kg. e denuncia una lunghezza di 120 cm.
Serve quindi una montatura di buona portata per usare con profitto questo rifrattore da 4 pollici oltre ad un cavalletto molto robusto e alto, due aspetti che non devono essere trascurati se non si
vuole essere costretti a sdraiarsi per terra ad osservare. La Vixen Sphynx o la EQ6-N appaiono valida soluzione a garantire tempi di smorzamento delle vibrazioni compresi tra 1 e 2 secondi anche ad
alti ingrandimenti.
Il lettore provi solamente ad immaginare, per gioco e capriccio, cosa accadrebbe ad un vecchio Polarex Unitron 102/1500, montato sulla sua originale equatoriale, all’atto della messa a fuoco... un
giro di manopola e poi si avrebbe tutto il tempo di preparare un caffé con la moka prima di avere l’immagine ferma!
Nell’uso lontano dalla configurazione altazimutale originale, e quindi su una montatura equatoriale go-to moderna, ho scelto di abbinare
al rifrattore un diagonale dielettrico da 31,8 millimetri e una serie di oculari con estrazione pupillare comoda come i Vixen LV al lantanio.
Per i “bassi” ingrandimenti, considerando il focheggiatore da 1,25 pollici, ho ripiegato sui 27mm. flat field e su un plebeo plossl da 40mm. e 43° di FOV. I medi ed alti ingrandimenti sono invece
stati ottenuti con la serie LV Vixen al lantanio con focali comprese tra i 10 e i 4 millimetri.
Nel rispetto del dato storico ho effettuato alcune osservazioni in comparazione anche con oculari ortoscopici classici di produzione Takahashi (i famosi MC-ORTHO da 24,5mm.
di diametro), da molti considerati i migliori “pezzettini di vetro” da frapporre tra un rifrattore e l’occhio.
Sopra: gli oculari contendenti. Comparazione tra i Vixen LV mm.4 e 5mm. prima serie e i Takahashi ORTHO 4mm e 5mm (barilotto da 24,5 mm.)
Questa sezione dell’articolo è doverosamente suddivisa in due parti che vedono l’impiego della forcella classica da un lato (valutandone
la effettiva usabilità), e dal confronto di resa visuale tra oculari “vintage-magici” e moderni di fascia media quando accoppiati al Pulsar 102.
La parte più divertente del test si è consumata nell’inseguire il cielo lattiginoso delle nostre città dalle corna della forcella originale, quasi un fionda rigida con cui si punta la freccia agli
dei rissosi dell’Olimpo.
Orbene, se si esclude il fascino masochistico che il set-up originale possiede ed elargisce a piene mani, ritengo sia del tutto anacronistico l’impiego della montatura in dotazione.
Pur molto più robusta rispetto a quella che equipaggia i modelli da 60 millimetri di apertura, la forcella non risulta infatti capace, anche e soprattutto in accoppiamento al treppiedi ligneo, a
garantire la solidità necessaria al telescopio.
Si possono liberamente usare ingrandimenti bassi (con oculari da 30 o 40 millimetri di focale) e puntare comodamente oggetti prossimi all’orizzonte o con elevazioni modeste, ma già spingersi con
profitto a 100x è difficile.
L’impiego estemporaneo ne beneficia ovviamente molto: lo strumento completo si solleva con facilità e si posiziona senza badare ad allineamento polare e nemmeno alla perfetta messa in bolla richiesta
da montature moderne. Si punta con immediatezza e dove il cielo è terso e buio è possibile fare “star hopping” con pochissimo sforzo grazie ai lunghi flessibili di comando dei moti fini (non esenti
da un discreto punto morto di backlash)
Nonostante questo ritengo personalmente poco adatto un 102/1300 a questo impiego che vedo più indicato al 80M (80/910) con la sua “custom mount az” oppure ad un newton 114/900 o 100/800.
Venendo alla resa che oculari differenti consentono ho messo a confronto, come anticipato, due prodotti agli antipodi per schema ottico e
trasmissione luminosa oltre che dominante di fondo.
Gli MC ORTHO Takahashi sono quanto di meglio sia reperibile tra i “vintage” di alto livello, gli LV ai
lantanidi Vixen degli anni ’90 sembra invece siano visti dai puristi con il “fumo negli occhi” per via della loro struttura ibrida (fondamentalmente un oculare con barlow aggiunta) e della dominante
calda che alcuni osservatori denunciano insieme ad una generale morbidezza di immagine che viene contestata come nemica dell’alta risoluzione.
A cospetto di un rifrattore classico con rapporto focale f13 non dovrebbe nemmeno esistere l’ombra del dubbio su quale scelta fare, almeno stando alla “chiacchiera”.
Il confronto si è quindi aperto con un forte pregiudizio ma i risultati che ha conseguito, pur incoronando gli MC come vincitori nelle prestazioni pure, sono stati molto più bilanciati del previsto
nell’impiego visuale canonico.
Gli Ortho Takahashi esaltano una crudezza di immagine che appare tagliente, più fredda e al “top” di quanto si possa percepire non solo quanto a dettagli ma anche in riferimento alla magnitudine
limite raggiungibile che (cielo permettendo) appare di un nonnulla superiore rispetto a quanto si ottenga con i Vixen LV.
La differenza, che va cercata con attenzione, emerge nella percezione delle stelle di campo più deboli, quelle al limite della percezione, che tendono ad essere più immediate nell’ortoscopico
rispetto al ibrido ai lantanidi.
Si tratta però di differenze molto limitate e che mi hanno spinto a preferire, nell’utilizzo sotto al cielo, gli LV capaci di offrire altri vantaggi a mio modo di vedere più importanti.
Un campo inquadrato superiore, una comodità di osservazione di altro livello, e soprattutto la capacità di appannarsi poco e solo in condizioni proibitive rende la serie LV quella sicuramente da
mettere in valigia durante le trasferte “zingare” per osservare da cieli meno inquinati.
A questi si deve aggiungere un banale plossl da 40mm. di focale, che aiuta molto nel primo stazionamento della
montatura e consente anche di apprezzare gli ammassi aperti larghi, e un oculare zoom che, se meccanicamente e otticamente valido, è fantastico per spaziare dai moderati 60/70x ai circa 170x (un
range di “poteri” che si sposa molto bene con una serie enorme di oggetti: dalle stelle doppie non troppo strette agli ammassi globulari e alle nebulose planetarie più luminose).
Altro eccezionale compagno potrebbe essere un oculare ultra grandangolare da 16mm. di focale e FOV apparente prossimo agli 82°. Nel mio caso, un multibrand marchiato Auriga, il 16mm UWA genera 81 ingrandimenti con un campo reale di esattamente 1 grado. Accoppiato al Pulsar 102 F13, questo
oculare si rivela eccellente se si opera sotto un bel cielo scuro. La puntiformità stellare è garantita senza percepibili distorsioni geometriche fino a circa 4/5 di campo e anche oltre questo valore
la fruibilità è buona garantendo un campo visuale ideale.
Al potere generato si ha un contrasto con il fondo cielo esemplare e una scala di immagine che garantisce soddisfazione sia che si osservi un oggetto angolarmente poco esteso (come un globulare o una
planetaria, oppure una coppia di stelle) che un ammasso aperto (almeno il 90% di quelli esistenti).
Non serve “buttare” soldi in oculari blasonati come i Nagler o i Nikon, è sufficiente investire centocinquanta euro in uno di questi “new models” in formato 31,8mm.
L’ultimo suggerimento che mi sento di offrire è quello di acquistare un diagonale dielettrico con la trasmissione luminosa (vera e non solo dichiarata) più alta possibile. Non ci si faccia
affascinare da “prismatici simil Zeiss” e si badi soprattutto a consentire che tutta la luce raccolta dai 10 cm. di lente giungano all’oculare. Si tengano puliti gli elementi ottici e si porti lo
strumento a “spasso” alla ricerca di condizioni di trasparenza buone dove saprà stupire e regalare visioni incantevoli.
Quantomeno illogico, l’utilizzo di un rifrattore con rapporto focale di f13 richiede tempi di esposizione e integrazione lunghi ma non è
impossibile un qualche impiego saltuario per la fotografia di oggetti cospicui del cielo. Tra questi si possono citare soprattutto gli ammassi globulari luminosi.
Il residuo di cromatica appare, in questi casi, più fastidioso del rapporto focale e la migliore soluzione è quella di operare in banda monocromatica con un sensore in bianco e nero.
L’aggiunta di un filtro, ho trovato migliore il “G” del set RGB (ossia il filtro verde con banda passante compresa tra i 500 e i 600 nanometri), consente un comportamento praticamente apocromatico e
lascia passare la luce corrispondente al picco di sensibilità delle cmos moderne.
Si può operare anche in “lucky imaging” con lo stacking di molte pose corte che non necessitano di autoguida. Ovviamente il cielo da cui si opera è fondamentale. In alta montagna, con magnitudine
limite pari alla sesta o ancora migliore, le cose appaiono molto facili e i risultati sono di rilievo. Dalla pianura, magari alla periferia umida e bianca di una grande città come Milano, in
condizioni Bortle 9+, le cose cambiano significativamente e quanto si ottiene deve essere accettato per quello che è.
Ciò che importa, e questo lo dico a titolo generale, è che l’immagine sia geometricamente e tecnicamente corretta. Inutile riprendere se la messa a fuoco non è precisa, se le condizioni dell’ottica o
del treno ottico non permettono di avere stelle puntiformi. I forum generalisti sono già stracolmi di esempi di scarsa autocritica.
A seguire posto una immagine dell’ammasso globulare M13 in Ercole che ho potuto riprendere in una sera con
cielo Bortle 9+ (ossia con 11 stelle visibili a occhio e un continuo velo di nuvole leggerissime)
Sono stato obbligato ad un live stacking con pose da 15 secondi e gain 300 sulla ASI 183 monocromatica con filtro verde “G”. Nessuna autoguida, nessun diethering, e una somma di 120 pose per un
totale di circa 30 minuti di integrazione.
A seguire immagine globale e ingrandimento della parte centrale del nucleo dell’ammasso. Nessuna elaborazione post ripresa se non l’aggiunta delle scritte.
L'ammasso globulare di Ercole M13. Foto sopra: immagine completa. Sotto: ingrandimento della parte centrale del fotogramma per valutare la puntiformità stellare anche in condizioni di cielo completamente velato dalle nuvole.
Al pari, mentre sistemavo i settaggi dello strumento e il cielo non era ancora velato come quando ho ripreso M13, ho fotografato il
sistema doppio di Epsilon Bootis (conosciuto con il nome di IZAR), impiegando la semplice focale nativa dello
strumento. L’accoppiamento con la camera ASI 183 mono (con pixel da 2,4 micron) e il filtro verde “G” hanno comunque permesso la registrazione delle due componenti. L’immagine proposta è la somma del
30% di 2000 frames acquisiti con un r.o.i. da 600x600 pixel in modalità Mono 8 bit, e un frame rate di 40 Fps circa.
Anche in questo caso, fatto salvo lo stacking con Autostakkert e la regolazione dei livelli di wavelet (praticamente non modificati) con Registax 6.0, non esiste alcuna elaborazione all’immagine che
viene proposta con un resize del 400%.
Affinché il lettore sia correttamente edotto della realtà del cielo da cui sono state tratte le immagini posto una fotografia scattata mentre eseguivo proprio le pose su M13. L'immagine riprende la zona allo zenit del mio cielo cittadino (in condizioni di nuvole leggere ma diffuse) con la silhouete del 102 f13 (foto sotto)
La mia già scarsa attività di ripresa lunare e planetaria è andata, nel corso degli ultimissimi anni, riducendosi a livelli poco più che
estemporanei per via di un costante peggioramento delle condizioni di turbolenza che affligge la mia postazione milanese.
La scarsa pratica rende quindi le mie immagini meno valide di quanto forse potrebbero essere a causa di una mediocre capacità elaborativa e di una innata avversità al post processing che solitamente
allontana i risultati dal dato di ripresa per edulcorarli con algoritmi magici.
La turbolenza costante dei mesi oggetto di test mi ha concesso solo di riprendere con scala massima di 5/10 e raccogliere quindi ben poche medaglie.
L'immagine risale al 1/2/2023 ed è ripresa con una barlow 2x acromatica e la summa dei filtri UvIr cut e wratten 12, camera ASI 183 mono. Link Astrobin ....................
Ho potuto dedicarmi esclusivamente a tre pianeti, di cui Venere in osservazione solo diurna nel pieno del cielo azzurro del passaggio tra inverno e primavera dell’anno 2023.
In unione al filtro W47 (un violetto), e poteri compresi tra i 100 e i 150 ingrandimenti, la sagoma del
pianeta interno si è fatta apprezzare per pulizia e contrasto di buon livello.
Non è possibile effettuare “vere” osservazioni della morfologia nuvolosa superiore anche se a tratti si ha la sensazione di cogliere sfumature sulla sagoma del pianeta, ma si può apprezzare
l’andamento della fase con una pulizia lodevole.
Ben più appagante è ovviamente la visione di Giove che, pur non alto sull’orizzonte, regala al 4 pollici
giapponese la possibilità di mettere in campo le sue qualità. La notevole e mutevole stratificazione delle bande sia equatoriali che tropicali, l’imbrunimento delle regioni polari, alcuni accenni di
maculazioni/ovali bianchi e un discreto dettaglio all’interno della GMR e delle sue bordure consente ore e serate di osservazione mai noiose.
Non ho notato sostanziali differenze nei dettagli percepiti anche impiegando rifrattori “top class” apocromatici di pari diametro e devo ammettere che quanto presente all’oculare del Vixen 102/1300
appariva quasi sempre superiore al pur ottimo maksutov 127/1900 usato per confronto.
L’immagine più luminosa del mio ETX 125 modificato (molto migliorato rispetto agli standard, e lo dico con cognizione di causa non come avviene per molti che pensano di trasformare le patate in Cigni
annerendo loro i bordi delle lenti) non aggiungeva infatti alcun dettaglio e quelli al limite apparivano meno immediati e “puliti” rispetto a quanto consentisse il Vixen.
Molto belli, al limite del disegno come neo alla Marilyn Monroe, anche le ombre proiettate dai transiti dei satelliti galileiani sulla coltre di nubi gioviane.
Per apprezzare alcune deboli striature ulteriori nelle sottostrutture delle nubi ho dovuto impiegare un apocromatico virtualmente perfetto da 5 pollici.
Marte non è mai stato il mio pianeta preferito e ammetto di non esserne quindi un
assiduo osservatore. Se confrontato con un acromatico 102/1000 ottimizzato (e sottolineo “ottimizzato”), il Vixen f13 permette un leggero miglioramento nella pulizia di visione e contrasto percepito
che però risultano inferiori a quelli che esibisce il Takahashi FC100N. Nel raro apocromatico giapponese il
bordo marziano appare più pulito, contrastato e netto, e parimenti risaltano maggiormente la morfologia dei continenti maggiori e il bordo delle calotte polari, quest’anno particolare per morfologia.
Il Takahashi è superiore, ogni considerazione ulteriore è vana, ma i dettagli che porta all’osservatore non vanno oltre il 10-15% (che non è poco): semplicemente quanto visibile è mostrato con
maggiore definizione.
Il dato non deve stupire considerando il livello di correzione che il “vecchio” FC a f10 alla fluorite esibiva nel rosso (era nato per quello in fin dei conti), campo di elezione quando si parla di
Marte.
Rispetto al nostro 102/1300, il maksutov 127/1900 (almeno nei momenti di seeing migliore) ha mostrato una
lievissima superiorità dovuta anche qui principalmente alla migliore correzione nelle lunghezza d’onda arancioni e rosse.
A tutti superiore è invece l’immagine offerta dall’apocromatico OWL da 5 pollici con Strehl da 0,983
mentre il newton 200/1000 (il mio personale Celestron C8-N) riesce solo a tratti ad imporre il suo diametro
consentendo alcune “percezioni fugaci” di particolari fini che vengono però annegate, per la maggior parte del tempo, nella turbolenza atmosferica.
Se in campo deep sky non esiste alcuna differenza significativa tra il Vixen 102/1300, il Bresser 102/1000, il Takahashi FC100N, in campo
planetario si nota la superiorità dell’apocromatico giapponese sia nella resa del dettaglio fine che nel contrasto generale delle immagini.
Nonostante questo l’immagine del 102/1300 è particolarmente piacevole e sempre in campo planetario mi sento di porre allo stesso livello di prestazioni assolute il 102/1300 con un ottimo maksutov
127/1900 (a cui sono state ottimizzati il 50% dei componenti e sostituiti i restanti) con la sola e importante differenza della sensibilità al seeing e costanza di prestazione.
Per pareggiare il Vixen 102/1300, il maksutov ha infatti bisogno di condizioni di turbolenza quantomeno buone e comunque la sua immagine risulta più tremolante rispetto a quanto generato dal
rifrattore.
Foto sopra: Takahashi FC100N (100/1000 doppietto fluorite minerale), probabilmente il migliore 10 cm. visuale mai realizzato.
Foto sotto: Meade ETX modificato e ottimizzato.
Decisamente inferiore invece appare il 127/1900 quanto a campo corretto, sia nell’osservazione a medio ingrandimento della superficie
selenica che in quella a bassi poteri destinata ad ammassi aperti del cielo profondo.
Alcuni saggi eseguiti in osservazione lunare e planetaria con ottimi apocromatici da 80 millimetri hanno invece sempre incoronato il Vixen 102/1300. Il pur maggiore contrasto e assenza di cromatica
residua non possono compensare la differenza di apertura che lascia preclusi alcuni microcrateri o rende troppo difficili le tenui bande extra tropicali di Giove quando davanti all’oculare ci sono
solo 8 cm. di lente, per quanto perfetta essa sia.
Il lettore lasci quindi ai furbi venditori la “magia” di alcuni 70 o 80 millimetri lavorati dalle mani di Pdor, figlio di Kmerr, della tribù di Instar... del resto, un 10 cm. a f13 ben lavorato,
genera prestazioni che sono di gran lunga superiori.
Foto sopra: Il Bresser 102/1000.
Foto sotto: Celestron C8-N (newton 200/1000)
Notevolmente migliore, soprattutto per geometria e focalizzazione, il Vixen 102/1300 si dimostra nei confronti dei moderni 102/714 in FPL-51 o corrispettivo vetro. Benché la cromatica residua risulti più contenuta nei “semi-apo” a due elementi tutti gli altri aspetti che lo star test classico evidenzia risultano meglio corretti nell’acromatico a f13 e l’impiego sul campo lo decreta in modo schiacciante.
Foto sopra: il 102ED f7 marchiato SVBONY che mi ha fatto compagnia per qualche giorno di test. Bellissimo esteticamente, piuttosto deludente nell'assemblaggio delle ottiche (che sono invece buone quanto a lavorazione e progetto).
Il fascino vintage del Vixen Pulsar 102 F13 è innegabile e sul campo le sue ottiche e meccanica si fanno apprezzare garantendo immagini
molto piacevoli e pulite benché non scevre di cromatismo come lo sarebbero quelle di un doppietto in FPL-53 moderno con rapporto focale di f9.
In visuale (specialmente nel deep sky) questo conta quanto a briscola vale un due di picche quando a comandare è cuori, ma in fotografia a lunga posa (dove però appare anacronistico impiegare un f13)
risulta indispensabile filtrare e impiegare camere monocromatiche.
Acquistare oggi uno di questi strumenti permette di sentirsi Camille Flammarion con qualche cavallo in più nel motore e godere di uno strumento che esercita fascino agli occhi di chiunque.
E’ purtroppo un telescopio difficile da reperire e il suo valore può essere valutato intorno al migliaio di euro o poco più, sempre che sia in ottime condizioni.
Per chi amasse il tipo di osservazione consentita da un 102/1300 e non riuscisse a trovarne uno sul mercato, fortunatamente oggi è disponibile un 102/1100 con ottiche sia acromatiche che “ED”. Il
secondo in particolare è a mio vedere eccezionale e coniuga una ottima meccanica ed un focheggiatore adatto anche ad accessori da 2 pollici ad ottiche capaci di immagini di alto livello (nel campo
dei 4 pollici) e assolutamente comparabili a quelle dei migliori apocromatici di pari diametro esistenti. Il costo di poco superiore agli 800 euro ne fa una ghiotta preda per gli irriducibili dalla
“media focale”.
Si deve ovviamente accettare la modernità e rinunciare al piacere sottile della esclusività, ma queste sono considerazioni che nulla inficiano le prestazioni reali.
Per chi invece non resiste al fascino discreto del vintage, il Vixen 102/1300 è sicuramente un “ever green” che nulla ha da invidiare ai sopravvalutati Polarex Unitron di pari apertura e che che
compete alla grande anche con gli F15 del tempo, tra tutti il suo fratello 102L (102/1500).
Sui forum generalisti e sui mercatini specializzati si tende a enfatizzare in modo eccessivo presunte caratteristiche di ottiche “vintage”
di piccolo diametro e lunga focale.
Giustificare molte entusiaste affermazioni è difficile (se non impossibile) dal punto di vista prettamente fisico e matematico, soprattutto quando si parla di strumentazione che porta sulle spalle
alcune decine di anni.
I trattamenti antiriflesso in uso 40 o 50 anni fa avevano caratteristiche molto inferiori a quelli a cui ci hanno abituato le ultime realizzazioni.
Tra i lettori sicuramente ve ne saranno molti che ricordano quanto si badasse, a fine del secolo scorso, alla dicitura impressa a serigrafia sulle ghiere ferma-ottica degli Schmidt Cassegrain Meade.
“HUTC”: Ultra-High Transmission Coatings: This special multi-layer coating on the front correction plate provides up to 15% more light transmission.”
Si pubblicizzava, in buona sostanza, una sorta di piccola rivoluzione capace di aumentare l’effettiva “lucentezza” delle immagini diminuendo al massimo gli effetti di riflessione dei vetri.
Indipendentemente dal brand produttore, Meade in questo caso, anche tutti gli altri produttori modificarono i trattamenti alle loro lenti per migliorare la visione dei clienti e per non perdere quote
di mercato. Significa che, tutto quello che avveniva “prima”, era inferiore dal punto di vista della trasmissione luminosa. La situazione si era già proposta, molti anni prima, con il passaggio dai
trattamenti “single layer” a quelli “multy layer”.
Una lente o una lastra correttrice prodotta negli anni ’60 o ’70 (per non parlare di quelle più vecchie) risulta quindi molto meno “trasparente” di una prodotta oggi. Significa perdere luce, un po’
come se, a parità di “trasparenza”, si perdessero millimetri di apertura libera.
Sono quindi fascinosamente ridicoli i commenti di coloro che difendono a spada tratta il “vecchio” perché “realizzato da abili mastri artigiani vestendoli della tunica stellata di Merlino.
Se a questo aggiungiamo le considerazioni sulla cromatica relativa di cui abbiamo parlato alcuni capitoli sopra, è facile comprendere come il “vintage” vada valutato e scelto da chi sa cosa
attendersi e sa come usare questi strumenti. Questo anche e comunque al netto di tutte le ottime sensazioni visuali che un rifrattore come il Pulsar 102/1300 è in grado di regalare.
JEra il 1981 e c'era Jena Plissken, al secolo Kurt Russell, nel capolavoro di John Carpenter: "1997: FUGA DA NEWYORK". Ricordo la sua frase più emblematica: "CHE PARLIAMO A FARE?"