PENTAX 100 EDUF F4 astrografo

Anno 2021

INTRODUZIONE

Il PENTAX astrografo, considerando anche la mia affezione alle linee visuali SD e SDP, è sempre stato un “tarlo” nella mia coscienza di astrofilo dilettante.

Compatto, in teoria molto ben realizzato, astrografo in un tempo in cui era “mosca bianca” o quasi, con il suo blasone mi ha attratto a più riprese ma, distratto da alcune considerazioni serpeggianti nel mondo della nostra passione, ho sempre rinunciato ad acquistarlo anche perché, fino a pochi anni fa, la mia passione per l’astro fotografia si era esaurita al tempo della gioventù quando si usavano ancora le pellicole chimiche.

Ogni tanto la curiosità di possederne uno è riaffiorata ma la ragione e l’opportunità la hanno sempre tenuta a bada fino a poco tempo fa quando ho deciso di fare di testa mia e cercarne uno, possibilmente declinato nella sua prima versione EDUF (per una serie di motivazioni che spiegherò nel prosieguo dell’articolo).

Sul mercato giapponese se ne trovano ciclicamente alcuni, soprattutto SDUF o SDUF II e a prezzi non popolari ma quando mi sono imbattuto in un EDUF malconcio sono stato mosso a compassione e ho concluso la transazione.

PER NON PARLARE A VANVERA: LA VERITA'

Una volta operata la scelta e completato l’acquisto ho dovuto attendere che lo strumento superasse i continenti e arrivasse a casa.

Nell’attesa ho valutato, o ho cercato di farlo, la storia di questo telescopio attingendo alle rare e sbocconcellate fonti disponibili.

Innanzitutto va detto che, differentemente dalle generaliste considerazioni da forum che hanno in qualche modo segnato la storia della serie F4 dei rifrattori di casa Pentax, attribuendo talvolta poteri magici all’evoluzione dei vetri con cui erano costruiti, lo schema ottico di questo astrografo è mutato nel tempo.

La prima versione, che debutta nel 1980 o l’anno successivo (questo ancora non sono riuscito a stabilirlo con certezza), è annoverabile a tutti gli effetti nella schiera dei Petzval puri o quasi.

Lo schema ottico, inventato dall’omonimo professore di matematica tedesco-ungherese nel 1840, è infatti caratterizzato da un progetto che prevede un doppietto frontale crown-flint (con un flint piuttosto sottile in verità), un diaframma di campo posteriore a metà del cammino ottico, e poi altri due elementi separati tra loro, rispettivamente un menisco e una lente biconvessa significativamente spaziate tra loro.

La differente curvatura o spianatura dell’ultima lente e la gestione della variazione di spessore del menisco tra centro e bordi determinava i gradi di libertà principali della correzione voluta.

Qui a seguire lo schema Petzval originale (quindi negli anni ’40 del1800):

A seguire la sua applicazione fotografica, ossia la declinazione in obiettivo per ritrattistica, negli anni ’60 del 1800. Nel caso dell'immagine riportata si tratta di un obiettivo fotografico da 180mm di focale con un rapporto di apertura di f4,5 (quindi molto vicino a quello proposto dalla casa giapponese) in cui la quarta lente (progettualmente biconvessa) si evolve in una semi piano convessa).

A paragone prendiamo lo schema ottico impiegato nel Pentax 100 EDUF degli anni ‘80 del secolo successivo (1900):

Come è possibile vedere, o quantomeno intravedere ma facilmente comprendere, la configurazione ottica dell’astrografo giapponese appare piuttosto aderente alla logica del Petzval originale.

Questa caratteristica rende ai miei occhi il 100 EDUF affascinante rappresentando la “summa” di una evoluzione logica, che assimila un disegno ottico rivoluzionario e con caratteristiche interessanti in fatto di contenimento di coma, aberrazione sferica, e astigmatismo grazie al diaframma di “stop” interno, e lo rende più performante impiegando vetri con caratteristiche di bassa dispersione, andando così a contenere in modo significativo la cromatica residua.

Per comprendere quanto poco siano credibili molte parole da forum, talvolta anche sgrammaticate, è sufficiente osservare come Pentax abbia modificato lo schema ottico originale della serie EDUF quando presentò la successiva SDUF (flint più sottile, curvature diverse, spaziatura tra 3° e 4° elemento modificata, curvature del 3° e 4° elemento riviste):

Tralasciando la differenti dispersioni di un vetro “ED” e di uno “SD” (di cui Pentax ma anche altri costruttori giapponesi non hanno mai dato specifiche numeriche esatte) diventa ovvio considerare la serie EDUF e quella SDUF due strumenti fondamentalmente diversi anche se accomunati da parte della meccanica (e ho detto “parte” solamente), apertura, lunghezza focale, e un focheggiatore elicoidale parzialmente simile.

Per completezza va detto che l'ultima serie SDUF-II risulta del tutto identica alla SDUF che sostituisce con solo alcune varianti nella gestione delle celle di contenimento dei due gruppi ottici e di alcune scritte e serigrafie estetiche.

Interessante è anche valutare come fosse realizzato il teleobiettivo Pentax 500 f5.6 dell’epoca:

Oppure il teleobiettivo 400 f4 per il quale molti dichiarano parentela (si noti il numero di lenti dell'obiettivo...9 elementi in 9 gruppi, e il precedente aveva un elemento in meno) con i "nostri EDUF e SDUF.

SMC Pentax-M* 67 400mm F4 ED[IF]

Image Format

6x7

Lens Mount

Pentax 6x7

Aperture Ring

Yes (no A setting)

Diaphragm

Automatic, 9 blades

Optics

9 elements, 9 groups

Mount Variant

Inner Bayonet 

Check camera compatibility

Max. Aperture

F4

Min. Aperture

F45

Focusing

Manual

Min. Focus

280 cm

Max. Magnification

0.01x

Filter Size

67 mm (Rear)

Internal Focus

Yes

Field of View (Diag. / Horiz.) 

12.7 ° / 10 °

Hood

Built-in, slide out

Case

Lens Cap

Coating

SMC

Weather Sealing

No

Other Features

Drop-in Filter Holder,Tripod Mount

Diam x Length

132.5 x 305 mm

Weight

3700 g

Production Years

1986 (start of production)

Notes

Engraved name: smc PENTAX-M* 67 1:4 400mm ED[IF]

Questo meraviglioso teleobiettivo a focale fissa venne proposto nel 1986 ed era composto da 9 elementi in 9 gruppi, con caratteristiche quindi enormemente differenti dal 100/400 EDUF. Al suo pari era dotato di elementi ED e progettato per lavorare sul formato 6x7 cm. a pellicola chimica.

Non sembra quindi esserci parentela molto stretta, se non per esperienza progettuale ed esecutiva oltre che impiego di paraluci e ghiere, tra la linea fotografica tradizionale di Pentax e la sua sottosezione dedicata alla osservazione e fotografia astronomica.

I COMPETITOR (ma siamo sicuri?)

Considerato il caratteristico rapporto focale a f4 del Pentax 100 EDUF si può tranquillamente dire che esso sia uno strumento unico e senza eguali nel panorama degli anni ’80, quantomeno in campo astronomico amatoriale. Quindi, ad essere pignoli, non si dovrebbero nemmeno ricercare “competitor” o considerane alcuni che, invece, chiameremo a rapporto per semplice contraddittorio tra le parti.

Proprio all’inizio degli anni ’80, dall’altra parte dell’oceano pacifico rispetto al Giappone, Al Nagler progetta e da vita al suo “Genesis”,: corre l'anno 1984.

Un attimo di ritardo rispetto a Pentax ma, soprattutto, uno strumento completamente diverso.

Sebbene i due abbiano la medesima apertura frontale (10 cm.) si caratterizzano per lunghezza focale diversa essendo il Genesis un 500mm. (e poi i suoi successori, dal SDF, dei 540mm.). Inoltre il Genesis è lungo 2 volte il Pentax e quasi 2 volte più lento (soprattutto nella serie SDF) nell’acquisire segnale luminoso su pellicola.

In compenso lo strumento di Nagler (che è stato uno tra i miei telescopi preferiti) è un vero rifrattore semi-apocromatico capace di reggere poteri elevati e di fornire un ampio campo spianato sia visuale che fotografico. E’ dotato di un focheggiatore “tradizionale” a pignone e cremagliera e può a tutti gli effetti essere uno “strumento unico e sufficiente”. Ma scordiamoci di poterlo installare su un semplice cavalletto...

Inoltre, a parte il fatto di avere 4 lenti in 2 gruppi, non può essere definito a tutti gli effetti un “Petzval” poiché il gruppo correttore (due lenti) è un insieme solo.

Se il Televue Genesis, più telescopio e visualmente più performante del Pentax 100 EDUF, lo amiamo ma siamo costretti a scartarlo come vero copetitor per quanto sopra detto possiamo rivolgerci ancora in Giappone ma dobbiamo attendere il 1986 per trovare qualcosa di interessante.

Il nostro problema è che, nel 1986, di interessante non c’è in realtà nulla perché ciò che Takahashi propone non può dirsi tale essendo, de facto, forse il più grande rifrattore semi-astrografo da 10 cm. al mondo. Il FCT-100 f 6.4 rappresenta “lo stato dell’arte” ottico e meccanico e, ancora oggi, i suoi standard qualitativi e le sue prestazioni non sono all’ordine del giorno.

Si dovrebbe, per onestà intellettuale, asserire che il vero “top” sia rappresentato dallo Zeiss APQ 100/640 (che tra l’altro dispone di un focheggiatore simile per concezione a quello del Pentax) ma il FCT-100 di casa Takahashi appare globalmente superiore allo Zeiss. Non parlo di prestazioni ottiche pure o di correzione sul piano d’onda (che sono sostanzialmente simili e le eventuali differenze risultano inutili in quanto difficilmente misurabili e soprattutto impossibili da vedere sia a occhio nudo che su pellicola) ma di generale duttilità di impiego, disponibilità di raccordi, spianatori, correttori, duplicatori di focale.

Il “maledetto” FCT-100 è imbattibile: offre prestazioni ottiche eccezionali, non ha quasi cromatica (nemmeno ai rilevamenti di oggi) è molto corretto anche geometricamente e offre un campo piano ampio, inoltre dispone di un riduttore di focale che lo porta ad operare a f4.8 trasformandolo nel più grande astrografo a lenti degli anni ’80 e ’90 oppure di un moltiplicatore di focale variabile che lo rende capace di operare fino a f8 o poco più.

E’ un po’ come se, in un parco auto aziendale pieno di Fiat Tipo, WV Golf, e Peugeot 308 fosse arrivata, all’improvviso, una TVR Chimaera.

E di “chimera” il FCT-100 ha molto a cominciare dal costo di acquisto che, comunque, non era poi molto diverso da quello che la Pentax richiedeva per il suo EDUF e SDUF I.

Dopo aver passeggiato nelle pieghe della storia strumentale degli anni ’80 dobbiamo però interrogarci sulla reale compatibilità di soluzioni tra questo magnifico FCT-100 introdotto nella discussione e il Pentax 100 EDUF “petzval” a cui vogliamo trovare avversari.

E per quanto non si possa che restare affascinati dalla bellezza estetica, dalle prestazioni esaltanti, e da ogni centimetro del FCT-100, dobbiamo ammettere che con il 100 EDUF non vi sono punti di incontro. 

Hanno entrambi la stessa apertura ma lo schema ottico e la focale sono profondamente diverse (tripletto uno e Petzval l’altro, 640mm. contro 400mm.) e anche se per il Takahashi è disponibile il riduttore dedicato questi è una “aggiunta” che modifica ulteriormente lo schema ottico (tre lenti davanti e due dietro).

Inoltre, avvocati del diavolo fino in fondo, il FCT-100 giunge con qualche anno di ritardo, non ha un focheggiatore elicoidale e, soprattutto, pesa di più ed è molto più lungo del Pentax (il doppio circa).

Non mi dilungherò ulteriormente poiché dai raffronti fatti risulta chiara una caratteristica unica del Pentax che, indipendentemente dalle sue prestazioni assolute, lo rende un oggetto a sé stante. Il 100 EDUF si può (anzi si deve) collegare alla macchina fotografica e non si distingue da un tradizionale teleobiettivo di pari focale. Si mette nello zaino e viene retto da un cavalletto, “user friendly” a chi è abituato a scattare con l’occhio al vetrino smerigliato e la mano che cerca un focheggiatore elicoidale con vari “noni” di controllo. E’ spianato, almeno su pellicola, per la Pentax 6x7 o le contemporanee medio formato professionali e nasce come astrografo puro e non come telescopio “multi utilità”.

Non va e non deve essere usato come un telescopio perché, de facto, non lo è o almeno lo è solo molto lontanamente. Tutti i rifrattori che abbiamo preso in considerazione o che potremmo chiamare in causa nascono per “guardare” le stelle e poi, semmai, per fotografarle. Il Pentax 100 EDUF nasce solamente per fotografarle e, se proprio per sfortuna la macchina fotografica si è rotta, anche per dare loro una occhiata saltuaria. E’ una differenza progettuale sostanziale... 

Con queste considerazioni i lettori potranno tornare e sfogliare alcune recensioni ridicole della serie EDUF-SDUF proposte in Italia e all’estero (si contano sulle dita di una mano a cui hanno tagliato due dita e mezzo quindi possono essere ritrovate facilmente...) e valutarle per quello che sono.

Sopra e sotto due immagini di quello che è, oggi, forse il migliore astrografo a lenti da 10 cm.: il Takahashi FSQ-106. Viene ritratto esteriormente (foto in alto) e ne viene indicato lo schema ottico (foto sotto).

RESTAURO E RINASCITA

Lo strumento, come del resto avevo avuto modo di verificare dalle immagini inviate dal venditore in Giappone, versava in condizioni di conservazione deprecabili.

Muffe, depositi rugginosi, macchie un po’ ovunque, opacizzazione degli elementi ottici sia dello strumento principale che del cercatore.

Ero quindi psicologicamente preparato ad una opera di restauro certosina e, in effetti, al suo arrivo il telescopio si è mostrato dimesso e in condizioni anche peggiori di come appariva nelle immagini di presentazione.

Il suo umore era “sotto i tacchi” e mi ha guardato sconsolato sperando che il suo nuovo compagno avesse cura, amore, e soprattutto la capacità e pazienza di aiutarlo a risorgere.

Sono queste le situazioni che più mi fanno innamorare di uno strumento e così, con il suo permesso e dopo qualche amorevole parola, insieme ci siamo concessi ore di lavoro e di collaborazione.

Il Pentax, smontato in ogni sua parte, mi ha dimostrato un lignaggio sconosciuto a qualsiasi altro strumento pur appartenente alla fascia top di mercato. Ammirando con devozione la sua meccanica, la quantità di raffinatezze costruttive, la quantità di diaframmi e ghiere, nonché di paraluce interni e contro-struttura di sostegno mi sono reso conto di avere a che fare con un oggetto che non può essere in nessun modo paragonato ai pur blasonati Takahashi o Televue, che pur apprezzo, che a suo paragone appaiono poco più che semplici ed economici giocattoli.

I costi realizzativi ma anche progettuali e costruttivi del Pentax 100 EDUF sono completamente fuori scala rispetto a quanto veniva realizzato, pur con precisione, da altri blasoni giapponesi o americani. 

Basti considerare che ai 4 elementi ottici corrispondono 4 celle (di cui due, quelle frontali, sono una integrata nell’altra ma concettualmente separate.

A tutto questo si aggiunge il filtro anteriore PF 112 mm che serviva per proteggere gli elementi a bassa dispersione da polvere e umidità (il cui costo oggi sul mercato è pari a 343,00 euro: una cifra astronomica!).

Mi sono quindi ulteriormente convinto della reale impossibilità di paragonare il Pentax 100 EDUF (più complicato e meraviglioso nella sua meccanica e ottica rispetto ai successivi “SDUF”) a qualsiasi altro “competitor” dell’epoca o presunto tale.

Il “nostro”, pur dopo essere stato per anni maltrattato o dimenticato, ha saputo, a 42 anni dalla sua costruzione, consentirmi di smontarlo senza incappare in indentamento dei filetti o blocchi vari. E così ho potuto separare gli elementi ottici, le celle, i diaframmi e dedicare loro una attenta opera di pulizia. Se si fa eccezione per un graffio sul paraluce (lato esterno) che non ho volutamente ritoccato per mantenere l’originalità del tubo, il resto è tornato ad essere, dopo l’intervento di restauro, in ogni dettaglio pari al nuovo con ottiche cristalline, praticamente invisibili anche a luci radenti o laser, e con una fluidità meccanica impressionante e “goduriosa”.

Ho ordinato una coppia di anelli appositi e ho installato provvisoriamente il Pentax su una montatura computerizzata usando una “culla “Takahashi per effettuare la “prima luce”.

E’ stato un battesimo particolare perché, nel cuore e nella mente, avevo già deciso che, anche se lo strumento si fosse rilevato problematico, il suo semplice livello costruttivo mi avrebbe fatto perdonare ogni altra difficoltà o limite.

Sopra e sotto immagini del Pentax 100 EDUF dopo la cura di restauro (lenti immacolate e un aspetto estetico quasi pari al nuovo).

IL "NOSTRO" PENTAX 100 EDUF: OSSERVAZIONI VISUALI

Nel suo nuovo stato di conservazione il Pentax 100 EDUF è stato installato su una montatura Vixen Sphynx SXW prima serie ed è stato impiegato in visuale per una prima valutazione ottica.

Gli star test vengono generalmente effettuati, almeno negli strumenti con diametri fino ai 150/200 mm. di apertura, ad ingrandimenti prossimi al loro diametro espresso in millimetri.

Un 4 pollici dovrebbe quindi essere testato con un treno ottico capace di fornire circa 100 ingrandimenti ma nel caso del “nostro” Pentax ciò equivale all’impiego di un oculare ortoscopico da 4 mm, estremamente “spinto” e poco adatto ad estrarre informazioni pulite.

Inoltre il rapporto focale di f4 rende obiettivamente assurda una simile “tirata di collo” all’ottica che dovrebbe lavorare più verosimilmente a ingrandimenti molto inferiori.

Prima di eseguire un vero e proprio star test mi sono concentrato sulla valutazione del campo visuale corretto.

Questo dato è purtroppo molto influenzato dalla tipologia di oculare impiegato e dalle sue caratteristiche possono più o meno bene “sposarsi” con lo strumento a cui vengono accoppiati.

Ho cominciato con un Takahashi LE-30 e con un plossl LX-40mm (per poteri e fov prossimi a 13x e 4 gradi il primo e 10x e 4 gradi il secondo).

Apparentemente il campo è risultato abbastanza corretto con quasi tutte le ottiche fatta salva una certa non perfetta puntiformità stellare dovuta ad un residuo di astigmatismo che ho poi verificato, nell'entità e nelle possibili cause, nello star test effettuato a seguire. L'impressione, tralasciando la presunta o meno collimazione delle ottiche, è stata quella di uno strumento che generi un campo simmetrico e tendenzialmente non curvo, almeno fino ai 3° e poi, oltre tale limite, con aberrazioni dipendenti dal tipo di oculare impiegato. Risulta, almeno in prima impressione, che il Pentax lavori correttamente ad una certa distanza (come del resto dovrebbe essere) dall'ultimo elemento ottico e che, quindi, risulti effettivamente un astrografo più che un rifrattore per osservazioni visuali semplici.

STAR TEST e PROVE FOTOGRAFICHE

Lo star test, che ovviamente indica una correzione cromatica non perfetta come quella a cui ci hanno abituato gli “apo” moderni, mostra un residuo rosso e verde nelle due opposte posizioni rispetto al fuoco ma un accettabile contenimento globale quando l’immagine è a fuoco, specialmente a poteri prossimi al 50% del diametro espresso in mm.
Vedremo come questa correzione cromatica, che pur lascia spurio un poco di alone intorno ai soggetti più luminosi, sia ben poco ininfluente in campo prettamente visuale ma più fastidioso in campo fotografico.
Ciò che mi ha lasciato perplesso durante lo star test è stato invece il comportamento geometrico dell’ottica che presentava un sensibile astigmatismo, problema ben più grave di un poco di cromatica.
Il difetto, che non riuscivo a quantificare in modo adeguato poiché mutava con il cambiare degli oculari, è introdotto in buona parte dai raccordi del treno ottico non adeguati e in parte da una miscollimazione del complesso a due lenti posteriore (su cui non ho ancora capito come intervenire in modo adeguato).
Pentax, come da antipatica tradizione, è il solo produttore ad aver sviluppato (o almeno il solo i cui prodotti siano largamente giunti al pubblico) un passo e misure proprie sia dei filetti che dei canotti di raccordo. De facto nulla che sia oggi in produzione standard si adatta in modo corretto mostrando sempre qualche minima tolleranza e generando flessioni minime ma deleterie specialmente a livello fotografico.
Ho dovuto sostituire raccorderie, spessorarle, anelli e sistemi di blocco, e sono poi giunto alla conclusione che, per fare lavorare correttamente il sistema, avrei dovuto far tornire dei raccordi a vite appositi.
Prima di procedere all’opera ho comunque eseguito una serie di test fotografici nella migliore situazione di gestione delle flessioni che sono riuscito ad ottenere con rimedi “casalinghi”.
Il problema di un po’ di astigmatismo residuo è rimasto ma è stato ridotto ad un livello se non proprio tollerabile quantomeno non eccessivamente invasivo.
Fine del test non era infatti quello di scattare immagini “APOD”, per le quali avrei dovuto beneficiare quantomeno di un cielo decente e non di quello milanese con Bortle classe 9 o 9+ oltre a possedere tempo e abilità superiori a quelle a mia disposizione, ma soprattutto valutare quanto, anche con i sensori moderni, il decantato campo corretto della serie EDUF-SDUF fosse tale.
A questo proposito va ricordato che il 100 EDUF era nato per essere spianato (o dichiarato tale) sul gigantesco formato 6x7 cm. (ben 4,8 più grande dell’attuale “full frame”) a pellicola chimica. Indubbio che le tolleranze delle emulsioni anni ’80 fossero molto più permissive dei pixel dei sensori cmos da meno di 4 micron di oggi, ma altrettanto vero è che il sensore da me impiegato ha diagonale e lati di dimensioni ben più risicate rispetto al dato progettuale.
La camera monocromatica ASI 1600, con pixel quadrati da 3,8 nm. dispone di un sensore rettangolare da 17,7 x 13,4 millimetri con una efficenza quantica che ha il proprio picco tra i 500nm. e i 600nm. ma anche una curva degradante in modo morbido tanto da risultare abbastanza sensibile anche nel vicino ultravioletto e immediato infrarosso.
Sia nelle lunghezze d’onda dei 400nm. che dei 700nm., ossia ai confini dello spettro visibile o poco oltre, la camera genera una QE pari al 60% del suo picco massimo.
Questo dato significa che è in grado di registrare bene gli estremi dello spettro e che quindi risulta poco tollerante nei confronti degli shift cromatici introdotti da ottiche non perfettamente corrette (che, diciamocelo: non esistono in termini assoluti).
Si tratta quindi di un benchmark significativo anche se non severissimo, soprattutto oggi che esistono alla portata degli astrofili sensori molto più grandi pur a prezzi mediamente accessibili (penso ai novelli sensori Sony IMX 571 oppure IMX 410 o 455).
All’atto pratico, e pur con i limiti imposti da un inseguimento problematico (ho avuto una serie di problemi con la montatura impiegata) e dal residuo di astigmatismo, le immagini stellari generate su tutto il campo appaiono identiche a testimonianza che, almeno il formato 17,7x13,4 risulta perfettamente spianato. Nel mio caso sono tutte “aberrate” ma lo sono in modo identico...
Per offrire al lettore una idea della dimensione reale del campo coperto indico che la focale di 400mm. sul sensore 17,7x13,4mm. impiegato abbraccia un rettangolo pari a 2,54 x 1,92 gradi.

Accantonato il dato geometrico, a me più caro, deve essere valutato l’effetto introdotto dal residuo cromatico non corretto.
Oggigiorno siamo diventati estremamente pignoli e intolleranti a qualsiasi shift cromatico tanto che nei forum generalisti ma anche in quelli “specializzati” si tende ad enfatizzare questo aspetto rispetto ad altri di tipo geometrico. Personalmente sono in disaccordo con questa tendenza poiché, curvatura di campo a parte, il residuo cromatico è una risultante scelta del progetto ottico mentre le aberrazioni geometriche no.
Si può, in linea progettuale e teorica, accettare che uno strumento mostri un residuo di colore non corretto finché questi rientra nella sua specifica progettuale. Non si può invece tollerare un difetto geometrico come aberrazione sferica o astigmatismo quando questi dipendono da una scadente lavorazione ottica o un errato assemblaggio degli elementi.
Inutile lamentarsi se un rifrattore da 10 cm. con un rapporto focale di F4 mostri cromatica residua anche se dotato di vetri ad elevato numero di Abbe. Nemmeno i più rinomati apocromatici di nuova progettazione, per quanto forniti di un numero elevato di elementi ottici, riescono ad essere privi di AC con sistemi ad F tanto bassa.
Decisamente più significativo è invece riscontrare un astigmatismo congenito, di valore assolutamente invisibile se riprendiamo con una pellicola chimica degli anni ’80, ma emergente quando si fa i conti con i nuovi cmos con pixel sempre più piccoli. Oppure, come nel nostro caso, un certo disallineamento di uno degli elementi ottici.

Sopra e sotto un paio di immagini ritratte in banda stretta con filtro h-alpha "largo" da 35nm. Si tenga presente che le immagini, non certo spettacolari, ritraggono due oggetti ben poco cospicui e sono tratte dal cielo Bortle 9 di Milano con integrazione minima. Il loro fine è quello di evidenziare le problematiche di astigmatismo riscontrate.

Della prima immagine, quella che riprende il complesso stellare Stephenson-1 (stella Delta Lyrae e porzioni di cielo circostanti) sono stati ingrandite la parte centrale e l'angolo superiore sinistro (ingrandimento spinto con dimensioni grossomodo simili tra i due ritagli) per evidenziare i due aspetti salienti riscontrati. Il primo mette in risalto quanto non vi siano differenze di geometria tra le immagini stellari al CENTRO e in ANGOLO nell'immagine. Il secondo tende ad evidenziare la forma non perfettamente rotonda delle immagini stellari dovuta al menzionato problema di astigmatismo introdotto, principalmente, dai raccordi meccanici impiegati.

Sopra: ritaglio e ingrandimento della porzione centrale del fotogramma. Sotto: ritaglio e ingrandimento di medesima porzione (area) dell'angolo superiore sinistro del fotogramma.

Medesimo esperimento è stato condotto sulla SECONDA immagine (quella ritraenete il grande ed elusivo ammasso aperto ASCC-101 per il quale sono stati utilizzati raccordi meccanici differenti ma ancora non sufficientemente corretti.

Come per il confronto precedente anche questa volta ingrandimento di porzioni di fotogramma simili del CENTRO (foto sopra) e dell'ANGOLO SUPERIORE SINISTRO (foto sotto). Immagine originale del complesso ASCC-101 nella costellazione della Lira.

Con il nuovo "treno di raccordi meccanici" impiegato (come si diceva ancora non corretto) si nota (e questo testimonia ulteriormente quanto sia "delicato" il settaggio dei raccordi) un maggiore astigmatismo a centro campo rispetto all'angolo del fotogramma. Si capisce come si sia di fronte ad un sistema che richiede molta attenzione e precisione, pena l'introduzione di problemi geometrici che, pur non devastanti (in fin dei conti va ingrandito molto per apprezzarli appieno), rovinano il lavoro del fotografo coscienzioso...

Quando lavora in banda stretta selezionata (che sia h-alpha, OIII, SII, o quel che vogliamo) l’ottica risulta ovviamente esente dai problemi cromatici residuali.
Si comporta quindi in modo ineccepibile ed è un ottimo astrografo a largo campo di ottimo livello: la focale di 400mm. abbraccia, su un sensore di dimensioni decenti, qualsiasi oggetto del cielo profondo o quasi.
Quando invece si vuole riprendere a colori in “single shot”, ossia con una camera a colori e non con una composizione LRGB, emergono i limiti della CA residua e della sensibilità differenziale del sensore alle varie lunghezze d’onda.
Personalmente trovo sempre molto difficile gestire immagini a colori ritratte da cieli molto inquinati poiché generano aloni e dominanti asimmetriche che in post produzione impongono molto lavoro (che non ho né voglia né capacità di eseguire). Preferisco lavorare sempre in monocromatico (tendenzialmente in B/N senza tricromia o quadricromia) e dedicare poco tempo a Photoshop.
Se il Pentax 100 EDUF viene impiegato in LRGB diventa un buon astrografo anche “a colori” e sicuramente non delude i fotografi anche smaliziati pur non raggiungendo la perfezione dei sistemi di ultimissima generazione.

Sopra e sotto due immagini tratte dal cielo BORTLE 9+ della mia postazione Milanese (M27: Dumbell Nebula nella Lira; e NGC 6888: Crescent Nebula nel Cigno). Le foto sono ottenute con un filtro h-alpha "largo" da 35nm e con integrazioni limitate. Filtri più selettivi e integrazioni maggiori porterebbero ad un aumento della profondità e dei dettagli sulle nebulose, ovviamente. Tutte le immagini sono reperibili ad alta risoluzione su Astrobin.com.

Nella immagine sotto il campo intorno alla Sharpless SH-2-91 ripresa da Milano in h-alpha da 7nm con inversione dei toni. Nebulosa difficile e diafana e quasi proibitiva da un cielo Bortle 9+ bianco e umido.

Discorso a parte lo merita il focheggiatore elicoidale di derivazione fotografica che equipaggia la serie EDUF e SDUF.
Grazie sia al diametro che alla qualità e precisione di assemblaggio, il sistema non ha né incertezze né presenta flessioni o basculamenti. E’, in sintesi, un elemento “perfetto” dello strumento, se si fa eccezione per il suo illogico standard metrico di accessori e raccordi.
Nell’utilizzo sul campo offre comodità in applicazioni visuali e una grande precisione in quelle fotografiche ma... impone che la montatura di sostegno sia molto robusta.
L’applicazione “rotativa” della forza che la mano, sempre in modo non simmetrico e lineare, esercita sul complesso meccanico risulta deleteria se sotto il Pentax abbiamo messo una piccola montaturina go-to con elettronica da 40.000 oggetti ma meccanica da campanello delle biciclette. Inoltre, in virtù del fatto che non esiste una demoltiplica, gli aggiustamenti fini, indispensabili in fotografia con un sistema ottico aperto a f4, tendono a risultare poco gestibili in condizioni di stativo “al limite”.
Molto carino e otticamente valido è anche il cercatore in dotazione, con regolazione diottrica e una correzione sul campo inquadrato di buon livello.

Tendenzialmente ritengo che la montatura “minima” per questa ottica sia la HEQ5 (presa come standard di riferimento) o altro prodotto della medesima fascia di prezzo. Ricordo anche che la guida, in caso di fotografia a lunga posa, può essere gestita (se la montatura viene correttamente stazionata) con qualche mini telescopio come i vari 60/240mm. o 50/200mm. presenti sul mercato a poche decine di euro, possibilmente in accoppiamento ad una camera abbia pixel grandi non più di quelli della camera di ripresa.
In caso di meccaniche non sopraffine è anche possibile evitare l’autoguida per pose non eccessivamente lunghe e non troppo adagiate sull’orizzonte sud (diciamo nell’arco dei 30/60 secondi) in virtù della velocità del sistema a f4

DUE PAROLE SULLA CROMATICA RESIDUA E I SUOI INFLUSSI

Spauracchio costante degli astrofili (a volte tenuta in eccessiva considerazione) la cromatica residua in un astrografo è sicuramente uno dei nodi cruciali della sua riuscita.

Nel nostro caso, un Petzval progettato almeno quattro decadi fa, la correzione di questa aberrazione è discreta ma lascia una visibile parte di spettro non a fuoco che genera due effetti: nelle fotografie a colori tinge di blu lo spazio intorno alle stelle più luminose, in quelle in bianco e nero tende a dilatare l'immagine stellare.

In una sera di fine agosto (il 29/8/2021 per la precisione) ho voluto eseguire un test per appurare, nell'uso normale, quanto questo aspetto si ripercuota sui risultati finali.

Per farlo (e pur tralasciando la non perfetta collimazione dello strumento) ho impiegato una semplice camera planetaria (nel mio caso una Altair GPCAM2) dotata del sensore sony IMX 224 a colori. Si tratta di una camera priva di raffreddamento e gestita da una elettronica semplice, adatta alle riprese planetarie ma molto meno a quelle del cielo profondo in quanto contiene meno bene sia il rumore di lettura che gli effetti di AMP-GLOW.

Non essendo raffreddata genera poi tutti i problemi delle camere "calde" (nel mio caso ho operato con una temperatura atmosferica di circa 18°C) e quindi ho dovuto, per contrastare un poco la presenza di pixel caldi multicolore, effettuare una serie di dark frame e poi anche di flat field ( i secondi per eliminare lo "sporco" di polvere sul sistema ottico).

Le immagini riprese non hanno beneficiato di autoguida e quindi, pur con una montatura ottima dal punto di vista dell'inseguimento, è presente una certa "deriva" che i dark frame mostrano come "tracce" di correzione sul fotogramma.

Per evitare un eccessivo "amp-glow" ho anche limitato le singole riprese a 30 secondi ciascuna con il guadagno elettronico (gain) impostato al livello più basso.

Non ho utilizzato filtri, neppure un banale UV/IR cut, e ho operato sotto un cielo Bortle 8 con anche alcune nuvolette lievi e la presenza della Luna, quindi in condizioni di estremo sfavore.

Per ottenere immagini che fossero un poco gratificanti ho limitato l'attenzione ad alcuni soggetti non solo alti sull'orizzonte ma anche luminosi come gli ammassi globulari M13 e M92 e la nebulosa planetaria M57: ben conosciuti e alla portata di tutti.

Se tralasciamo il problema di allungamento asimmetrico sulle stelle più brillanti possiamo notare quanto, pur in presenza di gradienti del cielo, l'effetto di disturbo della "terribile" aberrazione cromatica sia tutto sommato limitato. I puristi da APOD possono trovare mille appigli per obiettare ma resta indubbio che le immagini, anche se "deboli", appaiono gradevoli e correttamente bilanciate. Solo le stelle più luminose denotano aloni significativi e considerando la strumentazione elettronica di ripresa, la quasi completa assenza di post-produzione, e un complesso ottico in partenza non ancora "a posto" si può affermare che il risultato sia accettabile e più che dignitoso.

Il discorso, che punta a verificare quanto la cromatica residua del sistema, enormemente evidente nel classico test da pochi secondi effettuato sulla stella Vega (immagine sotto), sia invece tutto sommato tollerabile, serve soprattutto a ricordare quanto, sia in visuale ma soprattutto in applicazioni fotografiche, sia più importante la messa a punto ottico/meccanica di uno strumento che il mero dato della CA residua. Almeno fin quando questa è limitata a valori tollerabili.

La ripresa della stella Vega (immagine sopra) con pochi secondi di integrazione e con risultato grezzo privo di qualsivoglia elaborazione mostra un significativo residuo cromatico blu. Fortunatamente le stelle così luminose nel cielo sono poche...

QUALCHE ALTRO "SCATTO": M13 dalla città

Mi sono anche concesso un test in monocromatico sul globulare M13 (più e più volte ripreso in ogni "salsa". Ho però voluto vedere cosa si potesse fare, pur senza esagerare con l'integrazione, nei limiti delle condizioni di cielo che un classe Bortle 9 con l'inquinamento di smog della città impone.

Per l'occasione ho ripreso con uno stretto filtro H-ALPHA da 7nm., una semplice curiosità dato che le stelle dell'ammasso, de facto il vero target, emettono in spettro continuo e quindi non beneficiano della presenza del filtro. Inoltre, con una banda passante molto stretta nel rosso, il "rumore" di fondo aumenta ma in compenso si riesce a eliminare molta parte dell'inquinamento luminoso mentre purtroppo nulla si può fare su quello atmosferico.

L'immagine è la somma di 20 fotogrammi esposti per 300 sec ciascuno con un gain impostato a 200 (su scala da 0 a 600).

Sopra: immagine a pieno campo sulla ASI 1600 mono raffreddata.

Sotto: "close-up" della zona contenente l'ammasso globulare M13 e la prospetticamente vicina galassia NGC 6207.

Sotto: ritaglio centrale del fotogramma che comprende il solo ammasso M13.

In definitiva, nonostante la risicata focale nativa dello strumento, il risultato può considerarsi soddisfacente accettando un poco di "rumore" che potrebbe essere ridotto con un intervento più mirato in post-produzione.

CONCLUSIONI

Con 40 anni sulle spalle non risulta davvero possibile criticare il Pentax 100 EDUF anche e soprattutto in relazione ai risultati che consente di raggiungere.
Superato il problema della raccorderia e gestito adeguatamente con quella nuova, e magari un sistema di tilter della camera di ripresa, il poco astigmatismo residuo, magari anche dopo una corretta collimazione, il Pentax non può che farsi amare.
In visuale regge ingrandimenti fino ai 100x (che possono sembrare pochi ma siamo al cospetto di un astrografo puro e non di un rifrattore multiuso) e in fotografia esibisce un campo spianato (sono sicuro almeno fino al formato APS-C) anche con i moderni sensori dai pixel microscopici e, lavorando in monobanda (stretta B/N o RGB), un comportamento apocromatico a tutti gli effetti.
E’ bello, costruito in modo oggi impensabile se non con costi stratosferici, e può essere impiegato soprattutto con le moderne DSLR con buona soddisfazione e con un campo di visuale interessante.
Se valutato anche nel merito del proprio valore di mercato (di poco superiore al migliaio di euro nel 2021) resta una scelta interessante.
Sull’usato un rifrattore assemblato da 10 cm. vale lo stesso ma opera a f7 ed è fotograficamente meno interessante anche se più facile nella sua gestione iniziale. Offre prestazioni visuali decisamente superiori ma anche un campo piano molto più ridotto e un tubo di lunghezza doppia.
Inoltre non possiede né il blasone né la raffinatezza meccanica del Pentax (e solo chi ne ha aperto e smontato uno sa a cosa mi riferisco) e neppure la tenuta di valore nel tempo.
Poi, per tutto il resto, è anche e soprattutto questione di “pathos”.

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