Anno 2022 - novembre-dicembre
Era il 1989 quanto acquistai il mio primo Meade 2080 dotato di testa equatoriale e motorino sincrono in ascensione retta per
l’inseguimento del moto celeste apparente.
Con il tubo blu, il grande cavalletto di sostegno, una apertura da 20 cm. mi sembrava di poter davvero toccare il cielo con un dito. E così era in effetti. Non passava sera che non montassi lo
strumento, indipendentemente dal fatto che ci fossero nuvole o che minacciasse neve.
Osservare i pianeti principali, la nebulosa anello M57 nella Lira, ma anche i primi globulari e qualche coloratissima stella doppia. Quasi subito, orfano dei soldi per acquistare un Celestron Ultima
8 con la sua basetta dotata di spinotti di alimentazione a jack, ne costruii una simile in legno, ben verniciata di nero opaco e dotata di un amperometro, di un pulsante luminoso per l’accensione, di
due jack con tensione a 12 volt. Non li avrei mai usati (cosa del resto avrei potuto attaccarci?) ma il solo fatto di averli mi proiettava nel gotha degli astrofili professionisti o presunti
tali.
Osservai di tutto e anche di più nonostante non fossi capace di collimare propriamente lo strumento e lui, poveraccio, facesse quel che poteva con le sua stelline un poco triangolari.
Da allora sono trascorsi 33 anni, che a dirla così è una cifra che fa riflettere e che ha molti richiami religiosi ed esoterici, e di telescopi ne ho avuti così tanti da non poterli nemmeno
ricordare. Tra questi molti Schmidt Cassegrain prodotti sia dalla Meade che da Celestron ma anche dal nostrano Zen e dalla giapponese Kenko e da altri.
Tra i telescopi in uso ho tutt’ora un eccezionale Celestron Nexstar 11 in postazione montana sulle Alpi valdostane.
Eppure, dopo aver venduto il Mak 178 LX200 Meade (strumento di notevoli prestazioni) ho mantenuto nostalgia per i “vecchi” SC che hanno portato, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio del decennio
successivo, una vera rivoluzione in campo amatoriale.
Così, quando in un angolo della sede di Telescope Service Italia, ho adocchiato un negletto fustino Dash blu gli ho dedicato la mia attenzione.
“Guarda che è un residuato che abbiamo ritirato a un cliente non so nemmeno io perché” mi ha detto Luca Zanchetta aggiungendo poi: “Non fa
per te, devi smetterla di prendere strumenti, mi hai promesso che ti saresti disintossicato...E poi è un rudere, proprio non te lo consiglio”.
Il Meade da 8 pollici era sporco, impolverato, maltrattato, abbandonato ad un destino di discarica in effetti. Vedendo che il mio interesse aumentava nonostante i suoi tentativi di farmi ragionare,
Luca ha ceduto: “Prendilo, ma non pensare nemmeno di pagarmelo per il momento. Portatelo via, giocaci un poco, e poi tra due mesi me lo ridai e lo buttiamo!”, sottolineando con una sardonica risata
il suo disappunto.
Il povero tubicino mi guardava con occhi pesti e non ho avuto cuore a lasciarlo ad un futuro incerto e triste. Così lo ho sollevato e avvolto in un bel panno spesso azzurro e morbido e poi adagiato
in auto per il lungo viaggio che ci avrebbe riportati a casa.
Non si scandalizzino gli astrofili: ho volutamente scritto “tubicino” perché è la sensazione che ne ho tratto avendolo tra le mani. Quando ero ragazzo, oltre 20 anni fa, un 20 cm. mi sembrava un
colosso; oggi molto meno.
Il tubo è giunto sul banco di lavoro a casa a tarda sera, lo ho salutato e ho spento la luce rimandando al giorno successivo la reciproca conoscenza.
Le immagini che posto non rendono giustizia al pietoso stato in cui il nostro Meade, cui ho dato nome di “Chobin” e che così chiameremo
d’ora innanzi, versava. Strati incrostati di polvere e grasso ovunque, la lastra di Schmidt unta fuori e dentro, il secondario ricoperto di polvere, il primario con strati di umidità che avevano
lasciato tracce opache.
Il piccolo, simpaticissimo, cercatore 6x30 con diagonale a 90° (già una “chicca” per l’epoca) aveva perso ogni trasparenza delle ottiche che apparivano traslucide tanto erano sporche e unte e il
crocicchio interno storto come le ramaglie in inverno. Le viti, tantissime su questi tubi, e i grani a brugola ossidati e bloccati.
Sopra: il personaggio "Chobin", nato nel 1974 dalla matita di Shōtarō Ishinomori già papà del superlativo Cyborg 009 (anno 1964 - forse uno dei più iconici manga giapponesi di sempre per la sua capacità di essere innovativo non solo nella storia ma nell'approccio multietnico di cui si fregia).
Con Chobin ci siamo guardati negli occhi, abbiamo chiacchierato un pochino, e abbiamo deciso di darci da fare per una approfondita
ripulita.
Un doveroso rispetto deve essere portato a questo strumento, classe 1980 (uno dei primissimi Meade), che presenta un particolarissimo sistema di collimazione dello specchio secondario che, al tempo,
ancora non aveva le tre viti poste a 120° cui tutti siamo abituati. Il supporto, in alluminio di cospicuo spessore e peso oltre che di bella fattura, ha una vite centrale a bloccare la rotazione e
due grani a 90° (piccolissimi) che lavorano inclinando nei due assi ortogonali lo specchio.
Con molta pazienza ho rimosso tutte le viti esistenti, il cercatore (smontato nei suoi tanti costituenti) e la ghiera frontale serigrafata
che “dovrebbe” fissare la lastra di Schmidt. Il condizionale è obbligatorio perché questa era incollata, dai componenti oleosi delle guarnizioni originali, alla cella (che ha inoltre tolleranze
strettissime) e ho dovuto lavorare per quasi un’ora prima di riuscire a rimuoverla. Un miracolo che non si sia rotta ma sapevo che i primi Meade montavano lastre di spessore significativo e così ho
forzato un poco la mano. Una volta smontato, il vetro misura 55 millimetri di spessore e appare bello, privo di difetti e si lascia maneggiare senza eccessivo patema.
Pulirlo è stato un piacere così come ridare lustro allo specchio primario, alle parti interne del tubo (che è stato interamente lavato), e allo specchio secondario.
Sopra: a lastra correttrice di Schmidt smontata (con immane fatica tengo a sottolineare) dopo che in 40 anni nessuno la aveva probabilemnte mai toccata.
Sopra: lo specchio primario con il canotto di scorrimento. Situazione post intervento di pulizia.
Sotto: lo specchio sedondario dopo la pulizia effettuata
Il cercatore è diventato quasi nuovo sia nel crocicchio di centraggio (sistemato e raddrizzato) che nella pulizia delle lenti.
Prima di rimontare le singole parti ho dedicato tempo sia alle componenti nere goffrate del tubo (celle e culatta) sia alla parte in alluminio blu centrale che ha beneficiato di una nuova lucidatura
manuale con crema da carrozziere a pasta ultra-fine.
Il risultato è stato stupefacente e mi ha riempito di gioia oltre a far emettere mugolii di piacere a Chobin che si è guardato allo specchio e, tutto tronfio, mi ha detto “Ma che bello che sono in realtà!”
A lavoro ultimato ho provato a controllare la collimazione con un laser di ultima generazione (ossia schifoso) che ha ovviamente sancito
la completa scollimazione del sistema, come era logico attendersi. Scopriremo in seguito che il responso del laser (come quasi sempre avviene per via di una moltitudine di motivi separati) era errato
e che lo strumento, pur non perfetto, era molto più vicino all’essere centrato con il semplice rimontaggio corretto.
La prima luce è avvenuta in una notte umida milanese della seconda metà di novembre, anno domini MMXXII, e ha visto come soggetti alcune stelle luminose e un paio di sistemi duplici.
La collimazione (apparentemente corretta al banco) si è dimostrata molto lontana dall’essere accettabile e così ho sperimentato sul campo
il sistema di collimazione “X-Y” che appare più veloce di quello a cui siamo abituati con le 3 viti standard ma anche più delicato alla gestione della corretta tensione sulle micro-brugole di
regolazione.
Anche con il picco di focalizzazione centrato rispetto agli anelli di Fresnel l’immagine non appariva però ideale. L’ombra del secondario si mostrava spostata nelle immagini di intra ed extra focale,
segno di una non corretta posizione in asse del centro del secondario.
A questo supplisce in parte la possibilità di rotazione del supporto che, evidentemente, compensa il modesto fuori asse presente partendo da una situazione di non corretta centralità del
sistema.
Una rotazione di 90° ha ridotto a livelli poco significativi il problema restituendo, dopo una ulteriore collimazione, immagini più corrette dal punto di vista geometrico anche se non ancora
ottimali. A questo si aggiunge una eccessiva mancanza di tensione sulle brugole di aggiustamento X-Y, problema che ho deciso di affrontare in un secondo tempo monitorando le deformazioni introdotte
al variare delle tensioni (sia in aumento che in diminuzione).
Il range di ingrandimenti usati, che spaziava dagli 80 ai 300 circa, ha messo in evidenza le caratteristiche tipiche degli SC di un tempo:
una discreta focalizzazione, qualche sporadico baffo spurio che segue le fluttuazioni del seeing, e una elevata quantità di luce diffusa che è dovuta principalmente alla riflessione interna al tubo
ma anche ad una lavorazione un poco “soft” delle ottiche. L’opacizzazione interna è discreta e non danneggiata ma non è pari a quella degli ultimi esemplari e la mancanza di diaframmi circolari (che
si aggiungono solitamente in “post market”) influisce un pochino. A questo si aggiunge l’impressione di ottiche con contrasto medio basso che faticano a gestire gli alti ingrandimenti. Il referto,
lontano dall’essere definitivo, mi ha però indicato la strada possibile per un miglioramento nei limiti della fisica della lavorazione ottica.
Il risultato è apparso comunque in linea sia con le aspettative che con la possibilità di un proficuo utilizzo dello strumento che sembra gestire bene ingrandimenti nell’ordine entro i 150x circa,
valore fin troppo elevato nell’osservazione del deep sky e al tempo stesso eccessivamente conservativo per l’indagine planetaria dove Ciobin ha mostrato di essere poco “affilato”.
Nell’indagine dei sistemi multipli, dove gli Schmidt Cassegrain mostrano la corda rispetto a qualsiasi altro schema ottico, trovare condizioni tali da poter sfruttare poteri superiori con una
immagine ferma e pulita è molto difficile ma la restituzione soft delle immagini male si sposa con le necessità imposte da doppie strette e sbilanciate.
La resa appare simile a quella degli ultimi C9.25 posseduti (sempre ben poco adatti alle stelle multiple) e sicuramente inferiore a quella che sfoderava il Mak 178 f15 che, pur con una luminosità
leggermente inferiore, generava immagini “quasi” da rifrattore nell’indagine delle tracce stellari.
Ben visibile comunque il disco di Airy circondato da due anelli di diffrazione e, forse e solo a tratti, un accenno di terzo a testimonianza che la focalizzazione avviene in modo globalmente
corretto. Restano componenti spurie come alcuni baffi radiali (visibili ovviamente solo su stelle di primissima grandezza) e un alone di luce diffusa che non è percepibile al di sotto della seconda
magnitudine ma che tende ad abbassare il contrasto generale dell’immagine.
Se la visione appare comunque gradevole, e come vedremo più avanti anche entusiasmante su alcuni soggetti specifici, il comparto
“focheggiatore” si impone come vero tallone d’Achille del 2080 prima serie. Morbidissimo e senza incertezze, la traslazione dello specchio primario genera però un focus shift record tra tutti gli SC
testati nella mia esperienza. Il valore, che supera il mezzo grado (!) porta non solo una traslazione ma anche un “vagare” della stella nel campo inquadrato.
Se in utilizzo prettamente visuale si può in qualche modo superare il problema inseguendo con i moti elettrici del telescopio il vagabondare del soggetto è indubbio che la situazione si pone come
ostativa a qualsiasi tentativo di impiego fotografico in alta risoluzione.
Il problema è stato ridotto un po’ dopo aver smontato il sistema e serrato le sue componenti riducendo lo spazio tra i due dischetti di scorrimento sull’asse filettato ma resta comunque profondamente
fastidioso. Inoltre, le inclinazioni che subisce il primario si ripercuotono sulla perfezione dell’immagine finale e quindi la soluzione migliore appare l’acquisto di un focheggiatore esterno
aggiuntivo.
L’opera appare molto più semplice a dirsi che a farsi poiché il filetto su cui viene montato il visual back non è standard. I primissimi Meade erano infatti caratterizzati da un passo di 21/1 invece
che di 24/1 come ora il che preclude la possibilità di avvitare, per più di un giro o poco oltre, un qualsiasi adattatore e focheggiatore di attuale produzione.
Il bello del “vintage” è però anche questo e se la semplicità non è certo di casa nell’impiego di questi strumenti lo deve diventare il
bricolage e la pazienza.
Avendo in casa un bellissimo focheggiatore serie Titanium demoltiplicato ho constatato che il poco filetto frubile è sufficiente all’utilizzo in sicurezza e soprattutto che non si verificano
inclinazioni dell’asse ottico (almeno a livello visuale). I circa 6/7 millimetri mancanti alla copertura del filetto sono stati compensati con un disco in legno verniciato di nero che ha il solo
compito di rifinire l’estetica del retrofit. Nell'immagine sotto la situazione prima dell'inserimento del disco di compensazione.
Abituato al guadagno luminoso dei rifrattori da 5 o 6 pollici, impiegare un 20 cm. per osservare il colore degli astri negli ammassi
aperti o nei sistemi multipli è affascinante e si comprende, man mano che i test osservativi proseguono, quale sia il migliore impiego del telescopio anche in relazione alle altre ottiche
possedute.
Dal cielo di Milano, che è sostanzialmente inclemente quanto a trasparenza e illuminazione (con una costante permanenza a livello 9 della scala di Bortle), un 20 cm. molto compatto, che riesce ad
essere gestito come una piuma dalla EQ6N in postazione semi-fissa, è risorsa che sto imparando ad apprezzare e ad impiegare nel migliore dei modi.
Abbandonati i sistemi multipli stretti e anche la fotografia planetaria e lunare, che rappresentano una esotica estemporaneità nella mia attività astronomica, Ciobin si è dimostrato invece
eccezionale nella visione degli ammassi aperti in abbinamento all’oculare FLAT FIELD da 27mm.
I 74x circa generati e il campo reale di 0,71 gradi sembrano infatti ideali per ottenere il migliore compromesso tra luminosità delle
tracce stellari, fondo cielo, e ottimizzazione geometrica del campo inquadrato.
A questo potere, le immagini stellari sono dei puntini identici a quelli generati da un buon rifrattore con una caratterizzazione cromatica estremamente eterogenea che restituisce ad ogni astro il
suo colore proprio (anche con differenze piuttosto sottili).
In questa configurazione ho osservato alcuni ammassi aperti (dal doppio del Perseo a M103, da NGC 633 a M52 solo per citare i più famosi) e mi sono stupito della immagine che Ciobin è stato capace di
restituire e che non avrei cambiato con quella dei miei rifrattori da 5 o 6 pollici (indipendentemente dalla loro natura acromatica o apocromatica).
Semplicemente, a parità di finezza stellare (e mi si creda se dico che le dimensioni delle tracce sono difficilmente distinguibili a questo potere da quelle di un sistema a lenti), il numero di astri
che l’occhio riesce registrare risulta significativamente maggiore e le cromie delle singole stelle sono più evidenti e variegate.
Aumentando i poteri la qualità di un buon rifrattore da 13 o 15 cm. mantiene estremamente puntiforme i dischi stellari che invece risultano più impastati nel sistema compound, ma con oculari di
focale compresa tra i 30 e i 20/22mm. il Meade 2080 offre obiettivamente un risultato affascinante.
Il risultato, che detto da un “refractor boy” come me ha il suo peso, indica la strada corretta per un utilizzo intelligente del 20cm. americano, sia dai cieli puliti che da quelli inquinati e
cittadini.
Aspetto non trascurabile, già in molte occasioni da me e da altri sottolineato, riguarda la gestione termica dello strumento, sicuramente
più difficile rispetto ad un rifrattore, e la sua protezione contro l’umidità della notte.
La prima impone che sia dia attenzione al corretto equilibrio termico dei componenti del telescopio. Per chi abita in appartamento questo diventa difficile considerando che uno Schmidt Cassegrain da
20 cm., per vincere un delta termico di 15 gradi o più, richiede circa 2 o 3 ore (specialmente in telescopi vecchi privi di sistemi di areazione forzata), ma è relativamente facile per chi come me,
con un giardino a disposizione, può tenere l’ottica a temperatura non di molto diversa da quella dell’aria aperta ed essere quindi operativo dopo meno di un’ora.
Il secondo aspetto è ancora più determinante soprattutto quando si osserva dalla pianura, in tardo autunno o inverno, con situazioni di umidità elevatissima. In queste condizioni, gli strumenti
cominciano a grondare acqua dopo poche decine di minuti di osservazione ed è ovvio che le lastre frontali si appannino molto prima. Priva di protezione e posta ad una inclinazione di 60°-70°
sull’orizzonte, la lastra di Schmidt diventa traslucida dopo 10 minuti di osservazione e quando questo accade la sessione osservativa è finita e si torna al caldo sotto le coperte a leggere un libro.
C’è chi fa la “messa in piega” con il phon allo strumento, soffiando aria sulla lastra correttrice per una rapida sbrinatura ma anche uno squilibrio termico dell’elemento e il cementarsi del
pulviscolo depositato. Inutile sottolineare che questa prassi sia da evitare e che il migliore modo di ridurre il problema sia invece quello di dotarsi di un paraluce lungo (non mi imbarazzo
nel consigliarne uno con estrazione di almeno 30 cm., meglio ancora se maggiore).
Non sono un fanatico dei sistemi elettrici riscaldanti che generano problemi sia in alta risoluzione che in foto a lunga posa ma se il
fine è quello meramente osservativo a ingrandimento medio basso (tra i 50 e i 100x) allora l’influenza che il riscaldatore ha risulta limitata e la sua presenza può aiutare ad allungare la permanenza
all’oculare. Personalmente ho imparato a mantenermi indipendente dalle resistenze elettriche e riesco a lavorare bene anche in loro assenza ma non posso esimermi dal suggerirne l’impiego, soprattutto
ai meno esigenti in fatto di bilanciamento termico.
Altro consiglio che non sembra mai dare nessuno è quello di impiegare oculari con distanziale regolabile tra occhio e lente come molti dei Plossl modificati di ultima generazione e costruzione
tipicamente cino-orientale. La loro qualità è oramai più che buona e difficilmente distinguibile da quella dei “blasonati” e, se ci si limita a oculari con FOV compreso tra i 50° e i 60°, i risultati
che si ottengono sono altrettanto validi.
Un progetto ad elevata estrazione pupillare consente infatti una adeguata distanza tra occhio e lente superiore e ne limita, o quantomeno ritarda, l’appannamento.
Una delle primarie necessità emerse con il Meade 2080 ha riguardato, come accennato, il sistema di messa a fuoco. Il complesso interno
originario, che negli anni è stato migliorato nell’evolversi della produzione giungendo a lavorare in modo adeguato, soffre di una formale ingenuità progettuale e del peso del tempo di e utilizzo che
ha reso meno preciso l’accoppiamento tra gli elementi meccanici.
Il cospicuo focus shift risultante rappresenta il maggiore limite del telescopio e limita la piacevolezza di osservazione che, in sua assenza, appare invece elevata.
L’aggiunta di un sistema ibrido di focheggiatura esterna con l’impiego di un elemento di alta qualità come il focheggiatore Titanium (che è uno dei sistemi con il migliore rapporto prezzo/prestazioni
nonché tra i miei preferiti in assoluto per precisione di movimento) eleva di molto le prestazioni del Meade 2080 permettendo inoltre l’impiego di oculari da due pollici.
Con un diagonale dielettrico di buona qualità e il mio bellissimo oculare Vixen LV-30mm prima serie (un semi-grandangolare ben spianato con FOV nativo di 60°) si genera un sistema che, per il tipo di
osservazione richiesta, offre un bilanciamento ottimale tra guadagno luminoso, puntiformità stellare, campo inquadrato, ingrandimento ottenuto.
La scelta (come quella altrettanto valida del 27mm. flat da 53° che eleva un pochino gli ingrandimenti e restringe il campo ma offre una saturazione ancora migliore dei colori) porta a
sotto-utilizzare le teoriche possibilità di un 8 pollici, sia in termini di potere risolutore sia in fatto di ingrandimenti raggiungibili. Il fine osservativo prefissato viene però in questo modo
raggiunto e il confronto, a parità di condizioni, con un rifrattore da 13 cm. acromatico aperto a f10 come il Bresser 127-L è vinto con discreto margine.
Sopra: i due anelli in legno (in attesa di verniciatura) creati per compensare lo spazio "non avvitabile" tra nuovo focheggiatore esterno e culatta del telescopio.
Altro tallone di Achille che statisticamente affligge la maggior parte degli Schmidt Cassegrain commerciali è la scarsa capacità di
mantenere la collimazione ottimale nel corso del tempo ma anche durante il passaggio al meridiano con inversione dei carichi tra specchio primario e cella di supporto.
Il fatto inoltre che a “spostarsi” sia l’elemento su cui non è possibile intervenire urta da sempre la mia suscettibilità. La illogica meccanica degli SC di casa Meade e Celestron (che non si
differenzia molto da quella di realizzazioni più marginali di stampo artigianale), e che vede cantare diversamente solo Opticon (che però era un 250 f15) ma anche i Pacific azzurri anni ’60, impone
infatti che l’intervento dell’utilizzatore sia limitato al solo specchio secondario (che è quello meno sollecitato meccanicamente). In poche parole, la incapacità della cella di supporto del primario
non solo di gestire le deformazioni termiche del complesso ma anche gli spostamenti dovuti al carico di ottica e meccanica alle varie inclinazioni, viene “compensata” da variazioni apportate alla
inclinazione dello specchio secondario.
Se ci si emancipa dagli slogan pubblicitari e si riflette su quello che avviene in questi strumenti ci si rende conto della follia progettuale che li accompagna. Quello che abbiamo detto equivale a
cercare di mantenere in moto rettilineo una automobile, che soffre un difetto allo sterzo, sgonfiando una delle due gomme anteriori per compensare con un secondo difetto quello iniziale.
Sopra: la vita del ricco editore Pierro Brochant, interpretato da Thierry Lhermitte, viene sgretolata in poche ore dal "cretino" di turno...
Portare in una delle due posizioni di “riposo” lo specchio principale (a inizio corsa meglio, a fine corsa se non si può fare altro)
appare la soluzione migliore prima di effettuare la collimazione fine. E questo può avvenire solamente se, dopo, ci si dimentica di operare variazioni con la manopola del focheggiatore originale e ci
si affida ad un sistema esterno.
In queste condizioni il nostro amico Chobin si comporta in modo lodevole e tende a conservare il 90% della collimazione ottimale per lungo periodo. La miglioria non esime, in applicazioni al limite
del potere risolutore, dall’intervenire con correzioni mirate e molto fini, ma permette un costante utilizzo senza pensieri agli ingrandimenti prefissati per osservare gli ammassi stellari, dove il
2080 appare sempre pronto.
Sopra: immagine di repertorio (tratta da un articolo su CloudyNights) non dell'autore.
In chiave meramente collezionista il Meade 2080 dovrebbe essere installato sulla sua montatura a forcella originale ma è altrettanto vero
che i primissimi esemplari erano venduti separatamente e questo “pre-A” ne è esempio.
E’ quindi più che corretto dedicargli una montatura equatorlale alla tedesca, possibilmente con sistema di puntamento automatizzato così da rendere agevole l’osservazione degli oggetti celesti anche
da luoghi fortemente inquinati come le città di pianura.
Il massimo, dal punto di vista estetico, sarebbe abbinargli una Losmandy GM-100 prima versione (bicolore con le anodizzazioni azzurre) oppure una GM-8 (che è sempre nei miei pensieri).
Nel mio caso ho ripiegato su una meno fascinosa Skywatcher EQ6N-PRO che però, rimessa a nuovo con mirati interventi, sorregge in modo ideale lo strumento garantendogli solidità granitica e
permettendo un puntamento veloce e preciso grazie all’elettronica di gestione che, pur non di ultimissima generazione, è friendly nell’impiego e affidabile.
Sotto: immagine della Losmandy GM-8. Foto non dell'autore.
Sotto: il Meade 2080 "CHOBIN" installato su una più commerciale e diffusa SkyWatcher EQ6N-PRO. L'impiego di questa montatura, estremamente robusta per la massa e il peso in gioco, e del suo sistema GO-TO, comodo e preciso oltre che di semplice settaggio, rappresenta una ottima scelta per sostenere i circa 6 kg del compound americano in assetto completo.
Dopo aver terminato le opere propedeutiche alla finale collimazione e test dello strumento (quindi flange di compensazione per il
focheggiatore, centraggio migliore dello specchio secondario) ho lasciato acclimatare Chobin per due ore in luogo riparato dall’umidità a pioggia della notte, ho applicato un semi-dew shield a mezza
luna che riparasse la lastra correttrice ma che mi permettesse agevole accesso alle viti di regolazione, e mi sono messo a collimare con la calma necessaria.
Ho impiegato quasi due ore a trovare il migliore compromesso tra collimazione assiale e rotazione della cella del secondario e nel frattempo ho appannato per ben quattro volte la lastra di Schmidt
dovendo impiegare un “phon” privo di resistenza (e quindi ad aria fredda) a un metro dallo strumento per dissipare almeno il grosso del velo traslucido. L’operazione ha richiesto un tempo di circa
cinque minuti a volta passando per un iniziale ovvio aumento della condensa.
Il fatto di avere una moglie giovane e carina che legge davanti al camino francamente mal si sposa con il tempo perso, al freddo umido, per sistemare il nostro Chobin... E come direbbero alcuni
amici, citando la storia dei denti e del pane, dovrei riconsiderare le mie priorità ma mi piace pensare che anche loro si sarebbero incaponiti fino a raggiungere un risultato soddisfacente.
Nella sua ultima evoluzione, Chobin sembra infatti essere migliorato, almeno di un pochino. Resta uno strumento con focalizzazione morbida e più adatto alla osservazione a poteri limitati che non un
performer planetario ma ora appare meglio rispettare le sue prestazioni progettuali teoriche.
Per quanto pertinente, la domanda non ha risposta assoluta. Il mio caso è del resto particolare e la scelta deve essere giustificata e
motivata.
Il Meade 2080 è giunto in condizioni che difficilmente avrebbero attratto altri acquirenti, ma il fascino che lo strumento esercita su di me deriva dagli albori della mia carriera di astrofilo oltre
che dalla volontà di sfida a riportare il telescopio a lavorare come deve. Il restauro cosmetico, la sistemazione delle ottiche e la loro regolazione (nei limiti di un centraggio non professionale)
oltre alla disponibilità ad impiegare ulteriori risorse finanziare per modifiche successive permettono la rinascita di un anatroccolo sgraziato. Oltre a questo va anche menzionata la necessità di un
impiego specifico e non generalizzato, aspetto che non va trascurato nella valutazione complessiva delle prestazioni e della rispondenza dello strumento.
Per l’astrofilo tradizionale il simpatico Chobin risulta poco adatto: poco capace di lavorare con le mani, oggi abituato alla “pappa pronta” e digiuno di nozioni e cultura strumentale e ottica,
l’astrofilo moderno incontrerebbe eccessivi problemi nel gestire lo strumento e il “nostro” 2080 finirebbe i suoi giorni incompreso e bistrattato.
Sopra: un superlativo (e rimpianto) Jacques Villeret interpreta il devastante Francois Pignon ne: "Le dîner de cons", irriverente e caustica commedia francese di fine secolo scorso.
Per questi telescopi servono amatori che li sappiano impiegare correttamente dopo averli sistemati attentamente e che continuino,
nell’arco del loro utilizzo, a mantenerne sotto controllo le regolazioni possibili. Sono tutti capaci di guidare, oggi, una sportiva moderna che perdona ogni genere di grossolano errore. Molto
diverso è portare ai suoi limiti una Jalpa degli anni ’80 che sa farsi amare ma che certo rischia di inchiodare al primo platano disponibile il pilota incapace e presuntuoso.
Parimenti, se ad abbracciare il Meade 2080 è qualcuno che sa amarlo e rispettarlo le soddisfazioni possono essere tante e l’esborso meramente economico per raggiungerle sicuramente limitato e non di
molto superiore al costo di un oculare di ottimo livello. E con 20 cm. di diametro il cielo può davvero considerarsi quasi infinito.
In ultima analisi va detto che il 2080 tra le mie mani non ama gli alti ingrandimenti e non rende come “davvero” dovrebbe oltre i 130-150x il che lo rende “zoppo” se si cerca uno strumento “all
around” con cui dedicarsi ai vari aspetti della astronomia amatoriale visuale. Se però lo si considera strumento alternativo ad altri, migliori otticamente per osservare stelle doppie e pianeti, e
gli si concede di focalizzare le sue ottiche all’indagine di gruppi stellari ad ingrandimenti inferiori ai 100x ecco che il suo impiego diventa utilissimo e le immagini fornite molto
piacevoli.