BINOSCOPIO 127/1000 ISTAR - CO.ME.TA

anno 2013

INTRODUZIONE

Osservare il cielo notturno in binoculare è sempre affascinante e, più o meno, siamo tutti intrigati da questa possibilità.

Negli ultimi anni (la mia “prima” risale a circa 15 e più anni fa) sono diventate comuni le “torrette binoculari”: sdoppiatori del fascio ottico che permettono, con una coppia di oculari identici, di osservare con entrambi gli occhi. 

I visori binoculari sono però solo un economico ripiego, una “furbata” che permette maggiore comodità osservativa, ma che ben poco ha in comune con un vero telescopio binoculare. Il guadagno luminoso è minore (i prismi dei visori binoculari introducono assorbimento e raramente sono sufficientemente ampi da non causare vignettatura). Inoltre, e qui risiede la vera differenza, non fanno altro che distribuire in due fasci ottici disgiunti la quantità di luce raccolta dall’ottica principale che è e resta un telescopio singolo.

Per quanto perfetto, un rifrattore da 13 cm. accoppiato a un visore binoculare non potrà fare altro che, nella migliore delle ipotesi, peggiorare solo di poco le sue prestazioni massime.

Ben altra cosa è avere due rifrattori accoppiati a servire il nostro complesso occhi-cervello. Questa soluzione (ovviamente molto più costosa di una semplice torretta binoculare) aumenta non di poco il guadagno luminoso e il risultato, specialmente sui soggetti deboli, è davvero stupefacente.

L’indagine fisica porta a concludere che un binoscopio ben realizzato corrisponde a uno strumento singolo di identica fattura con diametro superiore di un fattore prossimo a 1,5 volte. Così si dice, così dicono i numeri… vediamo se è vero…

ESTRATTO DA UN VECCHIO ARTICOLO non dello scrivente

Il test sulle magnitudini si è rivelato molto istruttivo. Scopo del test era stabilire il guadagno in magnitudini che si ottiene passando dall’osservazione mono a quella binoculare. Il test è stato ripetuto, in condizioni di cielo estremamente limpido con magnitudine limite allo zenit pari a +6, su due campi stellari diversi ben alti sull’orizzonte in prossimità di Mizar e g Her. Le magnitudini visuali delle stelle di confronto sono state prese dal GSC. 
 

 

Magnitudini limite

 

 

 

Dual achro 80

Dual apo 102

 

 

 

Ingrandimento

29X

37X

mlimite (1 occhio)

+11.2

+11.4

mteorica (1 occhio)

+11.3

+11.8

mlimite (2 occhi)

+12.2

+12.7

Diametro equivalente (mm) 

123

151

Guadagno in magnitudini

+1

+1.3

 

La formula utilizzata per il calcolo della magnitudine limite teorica per un solo tubo ottico è quella classica:

m = 6.8 + 5 Log(D)

dove D è il diametro dell’obiettivo in cm. Il diametro equivalente del binoscopio si ottiene invertendo la formula precedente. Come si vede dalla tabella un binoscopio è, grosso modo, equivalente ad un telescopio tradizionale ma con un diametro maggiore del 50% rispetto a quello dei suoi tubi ottici. Questo risultato è dovuto all’operazione di integrazione delle immagini da parte del cervello.

PRIME ESPERIENZE

Nella mia carriera di astrofilo ho avuto la fortuna, pur non possedendone mai uno, di provare molti binoscopi di diametro e schema ottico variegato. Ricordo i primi Astromeccanica da 80, 100, e 120 mm., alcune autocostruzioni con prismi di Matsumoto e non da 150 mm., ma anche binoscopi ottenuti da tubi newton da 200, 250, 330 e 400 mm.

I Binoscopi-rifrattori di dieci e oltre anni fa mi avevano favorevolmente impressionato. Ricordo un test eseguito tra un binoscopio ottenuto unendo due Vixen 102M e il mio allora semi-apocromatico Meade 152ED su soggetti del profondo cielo. Il binoscopio, in barba ai suoi obiettivi da soli 10 cm. rendeva come se non meglio del grosso semi-apocromatico su tutti i soggetti deep-sky. La differenza non era abissale ma la sensazione di tridimensionalità e la percezione delle sfumature più deboli di alcune nebulose oltre alla visione degli ammassi aperti erano a favore del telescopio binoculare.

Dopo quelle prime esperienze ebbi l’occasione di usare alcuni sistemi ottenuti dall’accoppiamento di due tubi newton, anche di generose dimensioni come è possibile leggere sopra, ricavandone visioni mozzafiato degli oggetti extra galattici ma, al contempo, una notevole delusione per la parte meccanica. Le loro strutture approssimative e “fai da te” ne pregiudicavano a tutti gli effetti il proficuo utilizzo e il loro generoso diametro ne veniva fortemente penalizzato.

Decisi quindi che, se mai un giorno fossi approdato al “binoscopio”, avrei voluto uno strumento meccanicamente ineccepibile, anche se di diametro relativamente contenuto. Ho considerato per un po’ le realizzazioni JMI (con sistema motorizzato di collimazione) ma la configurazione newton oltre allo psicologico smarrimento nel dover guardare l’erba (e non il cielo), mi ha sempre lasciato perplesso.

Per qualche tempo ho valutato la possibilità di usare due rifrattori di diametro medio da 15 o 20 cm., possibilmente con un fuoco non troppo corto e prossimo a f7. Benché oggi sia relativamente economico approdare a rifrattori acromatici di qualità decente (non di più sia chiaro) da 8 pollici e focale simile a quella voluta (Istar ne produce alcuni molto economici ad esempio ma anche APM ha in listino telescopi simili anche se a prezzi più elevati) la preoccupazione del mantenimento dell’assialità tra i tubi e la soluzione del problema imposto dai prismi necessari mi ha sempre raffreddato ogni velleità.

Poi, un anno fa, mi sono casualmente imbattuto in un annuncio che pubblicizzava un binoscopio da 127 mm. di apertura e 1000 mm. di focale. La costruzione sembrava essere di elevata qualità e il sistema di regolazione e collimazione dei prismi era di mio gradimento. Scrissi qualche mail al proprietario/costruttore, di cui sono diventato “amico di penna”, facendomi spiegare la genesi dello strumento. Erano disponibili una buona quantità di fotografie del processo realizzativo: dai pezzi grezzi, ai semilavorati, fino alle parti finite anodizzate o verniciate. La montatura appariva estremamente robusta e ben bilanciata e il costruttore mi assicurava movimenti molto fluidi.

 

TORRETTA O BINOSCOPIO?

Non si può paragonare una Golf ad una Bentley solo perché entrambe sono colorate di blu. 

Quando acquistai la mia prima torretta binoculare questo tipo di accessorio era praticamente sconosciuto a livello amatoriale. La macchina del tempo mi riporta indietro la memoria di almeno 15 anni (forse anche più) e allora il solo sistema esistente (o quantomeno il solo di cui avessi notizia – perché anche Nikon aveva qualcosa nel suo listino) era quello realizzato dalla Vixen con un sistema di regolazione della distanza interpupillare a traslazione del barilotto porta oculari. Da allora ho provato diverse torrette e ne ho possedute altre, tra cui una costosissima Denkmeier a prismi maggiorati e una attuale e più modesta Tecnosky. Non le ho mai amate e non sono mai riuscito a bissare le strepitose performances da altri astrofili decantate. Sicuramente posso affermare, con un minimo di esperienza, che un conto è prendere una mela e dividerla in due, altro conto è avere due mele identiche…

CARATTERISTICHE DELLO STRUMENTO

Il binoscopio in oggetto utilizza due doppietti (numero di serie progressivo 003 e 004) venduti da ISTAR OPTICAL che, negli ultimi anni, è diventata un punto di riferimento per chi desidera grossi rifrattori acromatici a basso prezzo. C’è da dire che la qualità dei primi esemplari di questi rifrattori, specialmente nei diametri maggiori, ha lasciato qualche perplessità tra utenti e operatori, sia per quanto riguarda le aberrazioni che per la qualità generale delle lavorazioni. Detto questo sembra che Ales, con cui ho avuto lungamente modo di chiacchierare negli ultimi due anni, abbia finalmente risolto molti dei problemi che affliggevano i primi blank lavorati e stia giungendo a un livello qualitativo soddisfacente, anche e soprattutto dopo aver introdotto la serie R30 e R35 (che prevede vetri più sottili dello standard e una correzione cromatica più spinta rispetto ai tradizionali CaF).

I due obiettivi si presentano molto bene con un trattamento antiriflesso perfettamente uniforme e due belle celle porta-ottiche serigrafate e collimabili. Sono inserite in tubi di alluminio di spessore generoso con contro-flange e paraluce fisso molto ben realizzati. L’aspetto generale dello strumento è eccellente (potrebbe tranquillamente stare in una teca illuminata al centro del salone espositivo di Takahashi) e gli accoppiamenti meccanici e le finiture di verniciatura prive di difetti visivi.

Il gruppo di prismi posteriori è semplice ma solido e ben realizzato (il progettista/costruttore ha dimostrato di sapere il fatto suo meccanicamente parlando) e anticipa alcune delle finezze che contraddistinguono la nuovissima serie di binoscopi della Avalon (mi riferisco al solo attualmente in produzione che mi risulta essere il 107 mm. Sharpstar).

La montatura è a modo suo innovativa abbandonando l’illogica forcella tradizionale dei grossi binocoli per sposare un sistema centrale con grosse frizioni di regolazione installato su una semicolonna e poi su un treppiede mutuato dalla nuova EQ6.

Il tutto è di una solidità notevole tanto che anche a circa 150x il tempo di smorzamento è inferiore ai 3 secondi, un valore decisamente lusinghiero e migliore di quello di tante montature equatoriali gravate da un semplice Schmidt Cassegrain commerciale.

Come per tutti i binoscopi il parco oculari e accessori deve necessariamente essere “doppio” e per dotare in modo accettabilmente completo lo strumento ho provveduto a recuperare:

  • Coppia di oculari EF 27 mm. ED - campo 53°
  • Coppia di oculari Plossl da 15mm. – campo 50°
  • Coppia di oculari NED 12 mm. ED TS – campo 50°
  • Coppia di oculari Burgess/TMB da 9 mm. – campo 50°
  • Coppia di oculari 7 mm. UWA – campo 58°
  • Coppia di oculari ED 3,8 mm. - campo 50°
  • Coppia di filtri interferenziali UHC da 1,25”
  • Puntatore a proiezione di reticolo illuminato Royal Plus
  • Puntatore laser verde con supporto decentrabile

Purtroppo, nonostante la lunga lista di accessori, nell’utilizzo dello strumento mi sono accorto della mancanza di una ulteriore coppia di oculari a lunga focale (tipicamente da 32mm. o meglio ancora da 40mm.) che devo necessariamente acquistare per rendere completa la dotazione e per fruire al meglio del massimo campo corretto disponibile.

STAR TEST E COLLIMAZIONE

La prima luce dello strumento, avvenuta in una notte milanese di cielo umido e lattiginoso, è servita esclusivamente a testare le ottiche singolarmente e poi a verificarne il sistema di collimazione e le eventuali aberrazioni introdotte dal complesso prismatico posteriore.

I due “doppietti” ISTAR si sono rivelati molto onesti nelle loro prestazioni. Entrambi, utilizzati in “monoculare” anche con il filtraggio del complesso prismatico relativo, hanno mostrato una buona lavorazione ottica generale. La luce diffusa è apparsa molto contenuta, le centriche perfettamente collimate e l’aberrazione cromatica accettabilmente ben corretta nei limiti imposti dalla fisica. Va ricordato che siamo di fronte a un doppietto acromatico (anzi due) da 5 pollici con focale di un metro per un rapporto focale di 1/7,8, e quindi è lecito attendersi un certo “amount of chromatic aberration” che è ineliminabile e anche logico con queste premesse. Entrambe le ottiche hanno però denotato un lieve astigmatismo (di ordine inferiore) curiosamente opposto l’uno all’altro e probabilmente, proprio in virtù della perfetta simmetricità, dovuto al complesso prismatico posteriore. Il difetto è rilevabile soprattutto eseguendo lo star test visto ma, all’atto pratico, non sembra avere conseguenze tangibili durante l’osservazione. 

Appurata la quieta bontà dei due obiettivi e la relativa curiosa resa dei rispettivi treni ottici sono passato all’osservazione binoculare. Inutile dire che, come immaginavo dopo il trasporto, i due assi ottici non corrispondevano. Utilissimo invece sottolineare che il sistema di regolazione e inclinazione dei gruppi prismatici (che avviene con due manopoline poste nella parte inferiore dei carter) permette, in circa 3-4 secondi, di ottenere il perfetto riallineamento.

Una volta che le immagini stellari si fondono correttamente la visione è spettacolare. L’accenno di astigmatismo, forse anche in virtù della simmetria palesata, sembra scomparire e la focalizzazione risulta molto buona. Il campo offerto dalla coppia di oculari da 27 mm. non è ampissimo, attestandosi su poco più di 1,4° reali, ma la puntiformità stellare è ottima fino al bordo e la sensazione di tridimensionalità e comfort visivo davvero elevata.

OSSERVAZIONE PLANETARIA

Il solo pianeta comodamente visibile è Giove e lo uso come primo test reale dello strumento in alta risoluzione.

Differentemente da quanto avviene usando un solo occhio, nella visione binoculare il complesso occhio-cervello tende a limitare gli effetti dell’aberrazione cromatica tanto che, benché visibile, questa appare meno pronunciata di quella che mi aspetterei da un rifrattore acromatico da 127/1000 e comunque inferiore a quella emersa nel test “monoculare”. L’immagine si mantiene molto buona fino a  circa 142 ingrandimenti, che corrispondono a un valore percepito più elevato in monoculare e che permettono una visione dettagliata delle principali caratteristiche morfologiche gioviane. Conto circa 7, forse 8 bande ben distinte e una pletora di increspature sia nella SEB che nella NEB oltre a una certa granulosità e alcune lievissime striature nella banda equatoriale color avorio. La visione è paragonabile a quella offerta da un buon semi-apocromatico da 12 cm. a circa 200x (mi sovviene un paragone facile con lo Sky-Watcher 120 ED) anche se inferiore per nitidezza a quella permessa dal Takahashi FC-100N.

Non avendo a disposizione una coppia di oculari da 5 mm. non posso cercare il limite fisiologico dello strumento dato che il potere offerto dalla coppia da 3,8 mm. (263x in binoculare) appare eccessivo spappolando i dettagli più delicati e portando a un degrado notevole dell’immagine. E’ comunque impressionante notare come questo potere restituisca una immagine di Giove che mi ricorda, per dimensioni, quella in monoculare a circa 400x.

L’osservazione della Luna è, paradossalmente, ancora più piacevole. Se ci si accontenta di ingrandimenti di medio livello (i 142x offerti dalla coppia di oculari da 7 mm.  sembrano corrispondere a circa 180x in visione monoculare) è possibile apprezzare una infinità di strutture sottili sul suolo selenico. La visione binoculare permette una maggiore “attenzione” e percezione di dettagli fini e poco contrastati come alcune rimae e la pulverulenta superficie intorno ad alcuni crateri di grandi dimensioni. Anche i terrazzamenti all’interno di questi ultimi appaiono risolti meglio che in altri strumenti monoculari, soprattutto nelle parti a forte illuminazione dove la combinazione dei due occhi tende a limitare l’effetto di abbagliamento che “brucia” alcune features minori. Detto questo, anche se di buon livello, le immagini lunari offerte dal binoscopio ad alto ingrandimento sono forse lievemente inferiori a quelle permesse da un semi-apo di discreta fattura anche se superiori a quelle offerte da un classico acromatico da 10 cm. come il Vixen 102M.

Inoltre, per gusto assolutamente personale e non necessariamente condivisibile, benché anche agli ingrandimenti superiori l’immagine sia bella e facile, trovo più rilassante la visione del nostro satellite offerta dalla coppia di TS NED da 12mm. Gli 83x espressi “sulla carta” appaiono molti di più quando si è all’oculare  e l’incisione è altissima. I particolari visibili (anche quelli estremamente fini) sono innumerevoli e l’effetto “sorvolo” coinvolgente. E’ possibile, in queste condizioni, lasciare vagare lo sguardo e navigare placidamente su tutta la superficie illuminata senza essere disturbati più di tanto dalle bizze del seeing e senza che l’aberrazione cromatica (visibile come un tenue alone verde-giallognolo appena oltre il bordo lunare) abbia a inficiare la qualità della visione. Il tempo trascorre più velocemente di quanto non si immagini in queste condizioni e non è raro passare qualche decina di minuti in silenziosa osservazione.

PROFONDO CIELO

Dopo aver testato per qualche sera lo strumento dal cielo inquinato di Milano (prove risalenti a metà del 2012) lo porto nella postazione in valle D’Aosta a 1850 metri dove godo di un cielo molto buio e con la trasparenza assicurata dall’alta quota.

Purtroppo, causa l’iniziale maltempo e i successivi mesi di serrati impegni lavorativi, trascorre lungo tempo prima che io possa testare le capacità del binoscopio CO.ME.TA sul suo terreno d’elezione.

L’occasione giunge solo nell’agosto del 2013 in concomitanza dei giorni di massimo dello sciame meteorico delle Perseidi, fortunatamente lontano dai giorni di plenilunio.

Al buio terso delle notti montane, il binoscopio CO.ME.TA apre letteralmente le porte ad una visione del cielo emozionante. I campi stellari sono gonfi e spettacolari grazie sia alla estrema puntiformità delle stelle garantita dal sistema a rifrazione che al notevole guadagno luminoso assicurato dalla visione stereoscopica. Non c’è alcun paragone con le torrette binoculari accoppiate a telescopi, anche più grandi, singoli.

Affinché queste mie affermazioni abbiano senso riporto alcuni esempi emblematici che riguardano oggetti ben conosciuti alla comunità di astrofili. L’ammasso aperto M11 è uno scrigno di stelline debolmente colorate e la risoluzione è completa, un po’ come avviene con strumenti da 20/23 cm. con in più la comodità di osservare con due occhi. M27, nella Volpetta, è simile alle immagini in bianco e nero ottenute fino a qualche anno fa: la forma a clessidra classica si espande nelle due ali più tenui, lievemente bordate, e si intuisce un accenno della stellina centrale. Il cielo di contorno è ben nero e ogni stella di campo guizza come capocchia di spillo luminosa a fare bella mostra di sé.

Le nebulose diffuse nel Sagittario sono parimenti impressionanti. La Trifida mostra chiaramente i suoi solchi neri e la Eagle Nebula lascia ammirare la sua parte oscura che sembra disegnata su quella brillante.

M31, la grande galassia di Andromeda, rivela due bande scure che ne segnano l’alone mentre le sue galassie satellite appaiono morfologicamente ben definite. Non ho notato le zone HIII semi-periferiche ma l’umidità della serata era stranamente alta con una conseguente riduzione del contrasto sugli oggetti deboli.

Dove il binoscopio eccelle oltremodo è nella osservazione delle nebulose oscure. Le 6/7 principali di Barnard presenti nella zona tra lo Scudo e il Sagittario sono perfettamente visibili con forme nette e facilmente discernibili. E’ veramente emozionante seguire il contorno di questi “ciechi occhi di cielo” sullo sfondo della brulicante Via Lattea centrale ed è un peccato che questa categoria di oggetti resti solitamente ai margini dell’attenzione degli astrofili.

Infine, il complesso della nebulosa Velo risalta dal fondo cielo senza l’aiuto di filtri e il suo andamento, compresi alcuni filamenti deboli, è piacevolissimo da seguire oltre che piuttosto facile da individuare anche “spazzolando” velocemente la regione di cielo che lo contiene.

Per comparazione, un catadiottrico da 20 cm. usato ai medesimi ingrandimenti offre minor dettaglio e una visione meno appagante, e anche un più grosso 30 cm. fatica a pareggiare la visione del binoscopio benché la luminosità sia ovviamente superiore.

La visione di galassie morfologicamente dettagliate come M81 e M82 nell’Orsa Maggiore è ricca di particolari quasi quanto attraverso lo Schmidt Cassegrain da 30 cm. (anche se meno luminosa) con la differenza, ai miei occhi non marginale, che le stelle di campo sono molto più fini nel binoscopio e l’immagine sembra possedere una profondità maggiore che dona tridimensionalità (apparente) sconosciuta ai sistemi monoculari.

M13, il grande ammasso globulare di Ercole, è risolto meglio nel CO.ME.TA. che nel catadiottrico da 20 cm. mentre il confronto con il 30 cm. vede, finalmente direi, il binoscopio meno performante nelle regioni prossime al centro dell’ammasso che risultano meglio sgranate con lo strumento più grande. Anche qui, però, la differenza è limitata e la maggiore luminosità offerta dal 12 pollici (che permette di godere della cromia particolare di molte componenti dell’ammasso) viene quasi interamente compensata dalla puntiformità notevole offerta dal sistema a rifrazione.

Ho provato anche un test con il dobson da 50 cm., confronto obiettivamente impari, soprattutto a detta di molti, e ho trovato interessante la complementarietà dei due strumenti.

Se il fine è quello di risolvere i globulari più compatti, osservare il meraviglioso colore di alcune planetarie, o cercare galassiette deboli, lo strumento da usare è sicuramente quello maggiore. Per quanto performante il binoscopio non può certo compensare l’abissale differenza nella capacità di raccogliere luce che lo separa dal newtoniano. Dove però serve campo spianato e uniforme, o ingrandimenti limitati per ammirare oggetti molto estesi, il binoscopio non ha rivali: le mie amate nebulose oscure sono troppo estese per il grosso dobson che, semplicemente, le “perde”, mentre il “piccolo” binoscopio le esalta come pozze scure in un mare di finissime stelle di campo.

Il risultato, sicuramente influenzato dal gusto personale, è che otto notti su dieci il grosso dobsoniano resta a “prendere polvere” e alla sua inesauribile capacità di “vedere nel buio universo” preferisco una comoda poltroncina e la rilassante visione del telescopio binoculare.

BINOCOLO O BINOSCOPIO?

E’ una domanda lecita ma la risposta è difficile da dare. Sicuramente il mio pur piacevole GENERAL HIT da 100 mm. con prismi angolati e oculari intercambiabili non è in grado di stare al passo con il più grosso binoscopio CO.ME.TA. Ha dalla sua una accettabile trasportabilità, vantaggio che non rientra tra quelli offerti dal binoscopio, ma la sua fruibilità è limitata ai campi larghissimi e aumentare gli ingrandimenti oltre i 40x porta in un campo che il binocolo padroneggia male. Vuoi per via della corta focale, vuoi per via della scarsa propensione a reggere ingrandimenti superiori, il binocolo da 10 cm. deve essere impiegato come cerca comete e non gli va chiesto di essere un telescopio.

Il CO.ME.TA è invece capace di regalare immagini notevoli della Luna e dei pianeti maggiori, tanto e quanto un buon semi-apo da 12 cm. e più di un 150/1200 acromatico.

Il pur ottimo binocolo Vixen da 125.mm (versione angolata), che ha un guadagno luminoso pari o quasi a quello del binoscopio oggetto di questa chiacchierata, non sfugge alla sua natura progettuale e provare a sfruttarlo a oltre 70x è frustrante e quasi inutile.

Non ho avuto possibilità, se non fugacemente, di usare un Fujinon da 150mm (ma il suo costo di oltre 12.000 euro nella versione angolata lo pone obiettivamente “fuori categoria” e quello “economico” a visione diritta è praticamente inusabile in astronomia), né i nuovi binocoli cinesi da 6 pollici con lenti ED (prezzo vicino ai 4.5000 euro) ma credo che, benché macchine fantastiche sul profondo cielo, non possano avvicinare le prestazioni in alta risoluzione del CO.ME.TA.

Sarebbe interessante disporre di un MIAUCHI SATURN III, telescopio binoculare nato per l’alta risoluzione a poteri medio-alti, per un confronto diretto anche a costo di diaframmare il CO.ME.TA a 10 cm. per renderlo paragonabile allo strumento giapponese.

UN CONFRONTO INSOLITO

In una bella notte estiva di agosto, sotto il cielo cristallino della mia postazione in alta quota nelle Alpi Valdostane, ho messo a confronto il binoscopio CO.ME.TA con un Takahashi TG150 D-R. Lo strano strumento nipponico è stato scelto perché, tra quelli disponibili nella postazione valdostana, è quello con il diametro più vicino al binoscopio. Target di confronto sono alcuni oggetti famosi del cielo profondo.

Come indicato nel test dedicato in questo sito, il Takahashi in questione è una insolita variante del cassegrain classico con un elemento a rifrazione interna che ne estrae il fuoco e un rapporto focale spinto e prossimo a f. 5,7 per una apertura da 150mm e una focale di 858 millimetri (ostruzione centrale pari al 29% + razze = quindi circa il 31% sul diametro). Lo strumento è quanto più vicino, per filosofia di utilizzo, a un grosso binocolo essendo stato progettato per le visioni a ingrandimenti bassi e medio-bassi (tipicamente tra i 40 e gli 80/90 circa) del paesaggio terrestre in condizioni di scarsa illuminazione. La mancanza di un prisma angolare lo rende scomodo nell’osservazione di oggetti alti sull’orizzonte ma le resa ottica resta ottima se non si superano i 100x.

Affinché siano meglio comprensibili gli esiti del test va detto che le osservazioni sono state compiute ai seguenti ingrandimenti:

  • ingrandimento “A”: 44x per il 150 TG – 37x per il CO.ME.TA
  • ingrandimento “B”: 80x per il 150 TG – 83x per il CO.ME.TA

Purtroppo l’ingrandimento minimo offerto dal TG-150 è limitato dall’oculare zoom che lo equipaggia e che consente un range di poteri compresi tra i 44x e i 128x.

Il primo oggetto prova è stato M11, il Wild Duck Cluster nel becco dell’Aquila. Il telescopio binoculare offre una immagine migliore e più dettagliata sia al potere “A” che al potere “B”. Soprattutto a 80x circa la definizione dell’ammasso è più incisa e pulita nel binoscopio che offre un fondo cielo lievemente più scuro e una immagine tridimensionale notevole. Migliore anche la percezione delle componenti stellari più deboli con una sensazione di divario nel potere di raccolta della luce calcolabile in un 20% a favore del binoscopio.

Anche la visione dell’ammasso globulare M22, nei pressi di Kaus Borealis (gamma Sagittarii), ha indicato una percepibile superiorità del CO.ME.TA. In entrambi gli strumenti il globulare è risolto fin al centro ma la percezione delle catenelle di stelle e anche la definizione delle componenti stellari più deboli appaiono migliori nel telescopio binoculare. A 80x l’immagine del binoscopio è più bella e più “profonda”, benché anche il cassegrain modificato offra un quadretto appagante.

NGC 6638, globulare vicinissimo a Kaus Borealis, non ha dato indicazioni utili restando irrisolto in entrambi gli strumenti. La percezione della condensazione centrale è comunque netta e tale anche un accenno di granulosità nell’alone esterno che appare forse più immediata nel binoscopio di quanto non avvenga nel cassegrain.

Più interessante la visione di un altro globulare, anch’esso prossimo alla gamma Sagittarii, catalogato al n° 28 del catalogo di Messier (mi domando tra l’altro come abbia fatto Charles a non notare il globulare 6638 vista la sua fiera luminosità gli sarebbe valsa la laconica descrizione di “nebulosa condensata priva di stelle”). 

Benché entrambi gli strumenti non consentano immagini mozzafiato è il binoscopio a offrire la visione migliore dell’oggetto con una spiccata condensazione centrale e un alone debole parzialmente risolto nelle sue componenti più esterne.

Dove le differenze diventano però abissali è nella visione di due nebulose diffuse famose: M8 e M20.

La prima è bella in entrambi gli strumenti ma la morfologia delle parti scure è molto più facile nel binoscopio che non nel cassegrain. Anche le regioni diafane e “filamentose” della nebulosa appaiono meglio percepibili nel CO.ME.TA così come alcuni accenni dei globuli di Bock, che il cassegrain non riesce a staccare in modo convincente.

La Trifida (M20) appare profondamente diversa nei due strumenti. All’ingrandimento “A” la nebulosa è molto chiara e al binoscopio si notano con una lieve difficoltà le tre strisce buie centrali mentre il cassegrain si deve accontentare di un accenno di quella verticale più evidente.

A 80x la visione offerta dal CO.ME.TA cambia radicalmente e ricorda una fotografia sbiadita. La Trifida è solcata nelle tre direzioni dalle bande scure di spessore variabile (si nota anche un quarto canale più debole) e gas luminosi e diafani si maculano di zone più o meno trasparenti. Nel cassegrain invece la situazione è molto meno appagante: con visione diretta si percepisce solamente la striatura maggiore e solo con la distolta si riescono a intuire le altre due. Splendida in entrambi la visione della doppia stellina a ridosso della pozza scura al centro dei canali. Oltre alla quantità di nebulosa oscura accessibile con il binoscopio è impressionante notare come questa sia anche notevolmente frastagliata e irregolare. 

Entrambi gli strumenti mostrano anche la porzione di nebulosa a nord (quella che nelle fotografie a lunga posa appare di colore azzurro) ma il binoscopio è più “inciso” e anche capace di segnare (il cassegrain non lo fa) la oscura nebulosa  B-85 (il “fiume opaco che divide la parte di nebulosa rossa da quella azzurra).

La differenza tra i due strumenti, in quanto a percezione di raccolta luminosa, è molto più marcata che non nell’osservazione degli ammassi globulari. Sembra che il binoscopio raccolga almeno il 30/40% in più di luce e che abbia un sistema “magico” per annerire in modo più marcato il cielo intorno a stelle e nebulose, come se fosse dotato di qualche particolare filtro interferenziale che esalta tutte le zone morfologicamente interessanti.

Dopo la meravigliosa visione della Trifida mi sposto in Ercole, ben più alto sull’orizzonte, e punto M13. La differenza percepita tra i due strumenti su M22 si ripete anche qui. A 80x l’immagine è migliore nel binoscopio sia per focalizzazione che per risoluzione generale. L’ammasso è ovviamente sgranato fino quasi al suo nucleo e, benché non si colgano differenze sostanziali nella colorazione delle singole stelle, le catenelle (in M13 molto ben marcate) stellari sono più appaganti nello strumento a rifrazione che non nel riflettore.

Ancora una volta, però, è sui soggetti deboli che le differenze emergono in modo schiacciante. La vicina galassia NGC 6207 appare quasi “disegnata” nel binoscopio e molto più evanescente nel cassegrain. Il primo mostra contorni netti e una intensa condensazione centrale, proprio a ridosso della luminosa stella di campo che si trova in posizione asimmetrica rispetto al bulge, il secondo invece fatica a staccare la galassia dal fondo cielo che appare meno nero così come meno percepibile risulta essere il gradiente luminoso interno all’oggetto.

10-10-10 centimetri (anzi un po’ meno…)

L’idea nasce dalla banale constatazione di avere a disposizione, nella mia postazione montana, un ottimo TeleVue Genesis 1° serie (si legga a riguardo il test presente su questo sito). Il rifrattore americano ha segnato, nel corso degli anni, un punto di riferimento saldo nel panorama degli apocromatici da 4” di qualità. Benché la prima serie (schema Petzval con un solo elemento alla fluorite) sia meno corretta cromaticamente parlando dei più recenti TV 101, il Genesis originale (100mm. di apertura e 500mm. di focale) resta un ottimo 4 pollici semi-apocromatico con ottiche notevolmente pulite e una generale mancanza di aberrazioni geometriche. Usarlo come riferimento in una prova comparativa con il binoscopio CO.ME.TA risulta quasi obbligatorio ma rendere gli strumenti accettabilmente paragonabili richiede di diaframmare le lenti del binoscopio ad almeno 8/9 cm. con il duplice effetto di ridurre la raccolta di luce e aumentare la correzione cromatica finale.

Ho così realizzato in maniera spicciola due diaframmi in carta e li ho applicati agli occhi del binoscopio, installato il Genesis su una montatura Ioptron IE45 e puntato entrambi gli strumenti sulla Luna tre giorni dopo il primo quarto.

Per ottenere un fattore di ingrandimento paragonabile ho usato un oculare Takahashi LE da 2,8 mm. sul Genesis e una coppia di oculari da 7mm. UWA sul binoscopio: 178x sul rifrattore e 142x sul CO.ME.TA.

Come scritto in precedenza, e in disaccordo con il dato puramente numerico, la sensazione di ingrandimento è abbastanza simile e il confronto plausibile.

Cominciamo con il dire che la ricerca del fuoco nei due strumenti è piuttosto differente. La corta focale del Genesis e l’ingrandimento mediamente elevato utilizzato impongono una posizione molto precisa e determinano uno snap test severo. Il fuoco è unico e incontrovertibile e basta una minima rotazione delle manopole del focheggiatore per trovarsi “appannati”. Non c’è spazio di manovra e questo aiuta la certezza di operare nella condizione migliore.

Differentemente, il binoscopio ha una tolleranza maggiore. La focale doppia e il sistema roto-traslativo dei focheggiatori installati sui porta oculari rendono meno “certa” la posizione ottimale del fuoco obbligando qualche prova tra un occhio e l’altro per accertarsi di non perdere, nella somma dei due, i particolari più fini discernibili.

Quando sono certo di lavorare al fuoco corretto valuto il seeing che, purtroppo, è solo discreto. Siamo lontani dalle condizioni ottimali di test ma il valore di Pickering stimato, prossimo ai 5/10, è quantomeno sufficiente a non inficiare la prova.

La prima considerazione che sorge spontanea riguarda l’enorme differenza di luminosità tra i due strumenti. Anche così diaframmato, meno di 90 mm. reali, il binoscopio sembra raccogliere molta piu luce rispetto al rifrattore con una sensibilità al seeing lievemente meno pronunciata (per via della compensazione operata dalla visione stereoscopica).

La seconda considerazione può riguardare la correzione di aberrazione cromatica. Il Genesis offre una immagine praticamente scevra da cromatismo residuo, in compenso la minor raccolta di luce fa apparire il suolo lunare molto più grigio, distante dalla brillantezza di cui lo dipinge il binoscopio.

La diaframmatura a poco meno di 90 mm. porta il CO.ME.TA ad avvicinare il concetto di “acromatico a spettro molto ridotto” e l’immagine si libera della bordatura giallo-verde sul lembo lunare. Detto questo, io preferisco la visione a tutta apertura, anche e soprattutto in virtù della notevole differenza in termini di risoluzione che offre.

Amo il Genesis anche se non è quella macchina da guerra che si chiama Takahashi FC100-N, lo amo anche se vorrei che il suo obiettivo avesse più centimetri, lo amo anche se riesco a trovare quasi sempre qualche strumento che performa meglio in questo o quel campo di applicazione. E continuo ad amarlo anche dopo che il binoscopio CO.ME.TA lo ha surclassato nella visione della Luna, almeno in condizioni di seeing medio/scarso. Non mi riferisco tanto alla finezza di alcuni particolari ad alto contrasto (cito come esempio i picchi all’interno dei crateri maggiori, oppure i micro-crateri seminati qua e là, o la percezione delle rimae) dove comunque il binoscopio dimostra di possedere una marcia in più, quanto soprattutto alla visione delle ondulazioni e increspature dei mari lunari. Nell’immagine del binoscopio vi è una profondità e una gamma dei grigi sconosciuta al rifrattore e palesemente visibile. Sembra quasi di osservare, passando dal rifrattore al binoscopio, in un momento di illuminazione radente più favorevole. Quando poi decido di rimuovere i diaframmi a 90 mm. l’incremento di risoluzione si impone prepotentemente esaltando l’effetto menzionato e portando all’attenzione ulteriori micro increspature.

Ritornare poi alla coppia di oculari da 12 mm. acuisce ulteriormente questa sensazione grazie al ridotto ingrandimento che tende ad esaltare l’effetto di tridimensionalità dato dalla visione binoculare.

Mi spiace scriverlo, ma la conclusione è lampante: binoscopio acromatico da 13 cm. batte agevolmente apocromatico da 10 cm. nell’osservazione lunare.

Ovviamente, in una comparazione di questo tipo che possa essere esaustiva sarebbe necessario dotare il buon Genesis di una torretta binoculare. Così, avendo tempo a disposizione, installo la mia umile Tecnosky e punto nuovamente la Luna. 

Abbandonando la visione monoculare la sensazione di “sorvolo” aumenta ma la luminosità generale sembra subire una lieve riduzione, soprattutto agli ingrandimenti medio alti. Si nota anche una minore sensibilità alla turbolenza ma le prestazioni non migliorano, anzi. I particolari fini risultano più puliti in monoculare e il vantaggio di osservare con due occhi si limita ad una (opinabile) maggiore comodità. Le coppie di oculari da 27, 15 e 12 mm. lavorano egregiamente e permettono un gran feeling con lo sdoppiatore (senza e con duplicatore di focale), ma dai 7mm. in giù le cose peggiorano.

Quando tolgo il visore binoculare e passo alla visione “classica” mi riconcilio con una pulizia d’immagine maggiore e non rimpiango la torretta. Rimpiango invece il binocolone CO.ME.TA, che si è fatto “un sol boccone” anche del sistema rifrattore + torretta…

LO STRUMENTO DEFINITIVO?

Eh… ovviamente no, anche perché non credo che esista, se non per approssimazione.

Però, un binoscopio meccanicamente e otticamente ben realizzato come quello qui testato può essere a tutti gli effetti considerato uno strumento “per la vita” che lascia poco spazio ad ulteriori necessità, almeno per la maggior parte degli astrofili.

Nel mio caso, ma serve ancora del tempo e molta pazienza, sto pensando a una versione da 180 mm. R35 che, sono quasi certo, sarà il mio punto di arrivo, magari dotata di una forcella professionale con puntamento automatico. Un giocattolino non economico ma sicuramente foriero di emozioni importanti, sempre che il mio amico Claudio (che ringrazio per la sua splendida realizzazione e che saluto cordialmente) abbia nel futuro voglia di realizzarlo per me…

MA UN DIFETTO?

Se si escludono le limitazioni imposte dall’architettura dello strumento (dimensioni e pesi) o dall’utilizzo di ottiche non apocromatiche (cosa che sembra però incidere davvero molto poco) il solo difetto riscontrabile risiede nella visione del campo non condiviso dei due tubi ottici. Specialmente nell’osservazione diurna (quindi sfondi illuminati) o in quella della Luna (sfondo altrettanto luminoso) resta una parte del campo inquadrato (ai bordi dell’immagine) in cui sembrano andare a confluire solamente i raggi ottici provenienti dal tubo corrispondente (destro o sinistro). Ritengo che questo difetto sia imputabile o alla posizione del gruppo prismatico posteriore o a un suo sottodimensionamento. E’ un peccato perché, anche se non inficia l’osservazione del cielo profondo, è il solo reale appunto che mi sento di muovere allo strumento e che lo rende meno performante di quanto potrebbe essere sia in campo lunare che paesistico.

CONCLUSIONI

I pregi sono sicuramente tanti: buone performances in alta risoluzione (ottime se si considera lo schema semplicemente acromatico dei suoi obiettivi) e superlative visioni degli oggetti estesi del cielo profondo, con in più una spiccata vocazione all’osservazione di galassie non troppo piccole. I difetti, se si accetta la scarsa trasportabilità dello strumento che non può e non deve essere considerato alla stregua di un binocolo e che richiede un supporto adeguato, sono limitati alla sola impossibilità, se non si vuole realizzare un sistema di anelli rotanti, di utilizzarlo su una grossa equatoriale computerizzata e l’attuale mancanza di un cercatore o, in alternativa, di una coppia di oculari da 35/40 mm. 

Considerando però che sono tutti problemi più o meno facilmente risolvibili, il solo rammarico plausibile con il CO.ME.TA è che non abbia ottiche più grandi in grado di renderlo strumento ancor più performante.

Il costo, infine, va considerato quale elemento di giudizio. La qualità delle osservazioni restituite può tranquillamente ripagare l’investimento iniziale che, va detto per onestà, non è indifferente soprattutto se non si è in grado di realizzare in officina un simile piccolo gioiello e ci si deve quindi “accontentare” della scarsa e costosa offerta internazionale di binoscopi di medio diametro.

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